II DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 5, 37-46


Il vangelo di Giovanni che abbiamo ascoltato e che ad una prima lettura ci può apparire un po’ difficile ci chiede di puntare il nostro sguardo su Gesù, di guardare a lui come a colui che viene nel nome del Padre.

Non è esattamente la prima cosa che noi pensiamo di lui, ma è ciò che affermiamo quando diciamo che è «figlio di Dio», il primo titolo di Gesù è esattamente questo: «Io sono venuto nel nome del Padre mio», è l’inviato del Padre.

E se il mandante è il Padre è ovvio che Gesù cerchi di realizzare la volontà del Padre, o come dice nel brano di oggi, la «gloria del Padre». Tutta la sua vita fino alla croce e alla risurrezione, non sarà altro che manifestare la gloria del Padre, e noi sappiamo che in Giovanni la gloria del Padre non sono i fumi d’incenso o i troni dorati, ma un amore che vuole abbracciare tutta la storia umana, come sta ad indicare il segno stesso della croce. Gesù dunque è tutto teso a testimoniare questa volontà del Padre.

Ebbene guardando a come Gesù ha vissuto la sua missione, al coraggio che ha avuto nell’affrontare anche le opposizioni e le critiche, non perdendosi dietro a scopi secondari, ma tenendo fisso lo sguardo sul Padre, anche noi riprendiamo questo anno sociale, scolastico e pastorale pregando insieme: «Signore Gesù aiutaci a testimoniare la volontà del Padre per l’umanità, per questa comunità, per la tua Chiesa. Rendici forti e perseveranti nelle contrarietà e nelle opposizioni. Donaci di tenere fisso lo sguardo su di te mentre compiamo il nostro cammino, mentre riprendiamo il nostro lavoro quotidiano, mentre ci prendiamo cura del genitore anziano, del malato o accompagniamo con trepidazione la crescita dei nostri figli…».

Tenendo così fisso il nostro sguardo sul modo di fare di Gesù, che ha sempre avuto come criterio del suo agire la volontà del Padre, non abbiamo nulla da temere e possiamo affrontare questo nuovo anno con libertà e con speranza.

Ma c’è una seconda riflessione che la lettera agli Ebrei mi suggerisce come parola di Dio per questo tempo che la Chiesa, la nostra Chiesa italiana sta vivendo.

Io spero e voglio credere che tutti noi che siamo qui amiamo la Chiesa, la amiamo non perchè il papa, i vescovi o i preti ci stiano più o meno simpatici, questo è umano, molto umano, troppo umano per poterci permettere di amare la Chiesa.

Amiamo la Chiesa, perchè come concludeva la lettera agli Ebrei: «Colui che ha costruito tutto è Dio… La sua casa siamo noi» (v.6). Amiamo la Chiesa come casa di Dio nel tempo e nella storia. La amiamo come si ama una persona. La Chiesa è simile a una persona: vive, si afferma, agisce, soffre e ci può capitare di avere da soffrire con lei e persino per lei e a volte anche a causa di lei. Sappiamo che ogni vero amore deve senza dubbio passare per la prova.

E così noi amiamo la Chiesa considerandola come una casa che custodisce una presenza preziosa: solo se abbiamo lo sguardo fisso sul tesoro del Vangelo sapremo guardare alle crepe della casa, al suo deterioramento per le inevitabili usure del tempo, ma anche alla irresponsabile scarsa “manutenzione ordinaria”, non con il giudizio di chi proietta sugli altri le proprie frustrazioni, ma di chi avverte su di sé quel senso di responsabilità che già san Francesco d’Assisi ebbe ad avvertire come sua missione: va’ e ripara la mia casa.

Ci sono alcune cose di questa casa che vorremmo riparare subito, ed è ciò che ci fa più male dentro nell’anima. Lo esprime bene un credente quando scrive «Non mi scandalizza che la segreteria di stato si curi delle buone relazioni con il governo italiano, che la CEI vigili sulla legislazione, che i pastori portino rispetto alle istituzioni civili. Solo mi attendo che tutto ciò sia posto a servizio della causa del Vangelo da parte della Chiesa che è, sopra ogni cosa, comunità di credenti decisa a non farsi omologare o asservire» (Franco Monaco).

Ci sono delle relazioni istituzionali, formali che sono importanti e anche necessarie, ma non sono queste le cose prime, c’è qualcosa che la Chiesa tiene al di sopra di tutto ed è il Vangelo di Gesù, il lasciare trasparire la volontà del Padre attraverso le sue parole, i suoi gesti, i suoi riti, i suoi silenzi e le sue lotte.

E non mi sembra si sia fatto un gran parlare di vangelo in questi giorni, né di persecuzioni in nome delle beatitudini… piuttosto di questioni di potere, di alleanze politiche, e questo fa dire a ciascuno di noi che c’è qualcosa che non va.

La lettera agli Ebrei precisa due condizioni perchè la Chiesa sia la casa di Dio: La sua casa siamo noi se conserviamo la libertà e la speranza.

I fatti di questi giorni dovrebbero insegnarci che la libertà della Chiesa viene dalla sua incrollabile fedeltà al Cristo e non dall’aura di interessata rispettabilità con cui viene spesso circondata.

Come scrive il grande teologo H. De Lubac: «Se Gesù Cristo non è la sua ricchezza, la Chiesa è miserabile.  È sterile, se lo Spirito di Gesù Cristo non la feconda. Il suo edificio va in rovina, se Gesù Cristo non ne é l’architetto e se, delle pietre vive con cui è costruito, il suo Spirito non è il cemento».

Se manca questo legame al Cristo vero e sincero, pagato di persona, viene meno la speranza di fronte all’incertezza delle cose e del domani, incertezza che è propria della condizione umana, e così anche la Chiesa si riduce a cercare le garanzie e le sicurezze proprie dei pagani, le alleanze politiche per assicurarsi il futuro, per garantirsi i risultati e una certa efficienza, pagando un prezzo altissimo.

Voglio sperare che dall’esperienza di questi giorni impariamo che non ci può essere rinnovamento della Chiesa senza la solidarietà intima con Gesù Cristo che muore e risorge, che consegna la sua vita per amore.

Qui si gioca l’anima stessa del nostro essere credenti e dell’essere Chiesa credibile oggi: accettiamo di partecipare alla lotta di Gesù quando rifiuta di sottomettersi alle logiche del mondo e si lascia prendere dalla passione di Dio?

Sappiamo che è anzitutto una lotta intima e interiore che ciascuno di noi compie quotidianamente. Ma sappiamo anche che è una conversione della Chiesa chiamata a scegliere sempre tra il regno di Dio e il mondo.

Per uscire dal fango di questi giorni, voglio riproporvi le parole di Martini per il discorso di s.Ambrogio del 1996: Alla fine del millennio lasciateci sognare!

E vorrei che anche noi con lui vincessimo la tristezza e continuassimo a sognare:

«Una Chiesa pienamente sottomessa alla Parola di Dio, nutrita e liberata da questa Parola;

una Chiesa che mette l’Eucaristia al centro della sua vita, che contempla il suo Signore, che compie tutto quanto fa “in memoria di Lui” e modellandosi sulla Sua capacità di dono;

una Chiesa che non tema di utilizzare strutture e mezzi umani, ma che se ne serve e non ne diviene serva;

una Chiesa che desidera parlare al mondo di oggi, alla cultura, alle diverse civiltà, con la parola semplice del Vangelo;

una Chiesa che parla più con i fatti che con le parole; che non dice se non parole che partano dai fatti e si appoggino ai fatti;

una Chiesa attenta ai segni della presenza dello Spirito nei nostri tempi, ovunque si manifestino;

una Chiesa consapevole del cammino arduo e difficile di molta gente oggi, delle sofferenze quasi insopportabili di tanta parte dell’umanità, sinceramente partecipe delle pene di tutti e desiderosa di consolare;

una Chiesa che porta la parola liberatrice e incoraggiante dell’Evangelo a coloro che sono gravati da pesanti fardelli;

una Chiesa capace di scoprire i nuovi poveri e non troppo preoccupata di sbagliare nello sforzo di aiutarli in maniera creativa; una Chiesa che non privilegia nessuna categoria, né antica né nuova, che accoglie ugualmente giovani e anziani, che educa e forma tutti i suoi figli alla fede e alla carità e desidera valorizzare tutti i servizi e ministeri nella unità della comunione; una Chiesa umile di cuore, unita e compatta nella sua disciplina, in cui Dio solo ha il primato;

una Chiesa che opera un paziente discernimento, valutando con oggettività e realismo il suo rapporto con il mondo, con la società di oggi; che spinge alla partecipazione attiva e alla presenza responsabile, con rispetto e deferenza verso le istituzioni, ma che ricorda bene la parola di Pietro: “È meglio obbedire a Dio che agli uomini” (At 4,19)».

Tenendo fisso lo sguardo su Gesù, inviato dal Padre, preghiamo anche noi con l’accorato appello di Isaia, come a voler ci aggrappare all’Eterno: perchè ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore? Ritorna Signore, per amore dei tuoi servi! Fa’ di noi la tua casa libera e piena di speranza.

(Is 63, 7-17; Eb 3, 1-6; Gv 5, 37-47)