VI DOPO PENTECOSTE - Gv 19, 30-35
(Es 24, 3-18; Eb 8, 6-13; Gv 19, 30-35)
Il tema del sacrificio è il filo conduttore delle letture di oggi. Un tema che è assai presente nella vulgata cristiana per la quale ad esempio noi ogni domenica celebriamo il sacrificio di Gesù, il sacrificio dell’altare; così come facciamo dei sacrifici, oppure offriamo in sacrificio al Signore le sofferenze e i dispiaceri…
Ma di quale sacrificio stiamo parlando? Se la morte di Gesù fosse un sacrificio di espiazione, dovremmo chiederci anche: ma chi lo condanna ad espiare? È l’ira di Dio che deve essere placata? Ma Gesù non è venuto ad annunciare un Dio che è Padre misericordioso e buono?
Se il Signore espia il peccato con il suo sangue, se col suo sacrificio assume su di sé l’ira di Dio, il volto di Dio non può che assumere i caratteri della paura e della tirannia. Non solo ma la nostra spiritualità sarà sempre schiava del senso di colpa, perché debitrice di tanto sacrificio. Anche per questo i lefebvriani non accettano il messale di Paolo VI perché avrebbe cancellato la nozione di sacrificio…
La narrazione di Giovanni, che era lì sotto la croce e ne dà testimonianza, dice che la morte di Gesù è stata il compimento dell’alleanza, perché questa è stata l’interpretazione stessa del Cristo: «Tutto è compiuto». Non solo ma Giovanni ha visto sgorgare dal suo fianco sangue e acqua, dopo che Gesù aveva, per così dire, «celebrato» la sua morte nell’ultima cena.
Questi elementi del racconto, a ben guardare, li ritroviamo nel cap. 24 dell’Esodo, nel momento in cui Mosè, l’amico di Dio, riceve la Torah e la consegna al popolo. Il racconto risulta essere un po’ complesso perché è l’intreccio di diverse tradizioni, infatti prima si parla di Mosè che parla al popolo, e quindi era già salito sulla montagna, poi lo vediamo di nuovo sulla montagna accompagnato da pochi prescelti. Non solo, all’inizio Mosè riceve un libro dell’alleanza che legge alla presenza del popolo, poi però sembra ricevere dall’Eterno delle tavole di pietra… In questo quadro complesso ritroviamo quegli elementi che Giovanni ha ben presente nel suo vangelo: si parla di alleanza, di sangue che viene sparso, addirittura si dice che Mosè e i settanta anziani videro Dio e mangiarono e bevvero, quindi c’è stato anche un banchetto e infine c’è la consegna della Torah. Purtroppo noi parliamo sempre di legge, le tavole della legge, della legge del Signore… il termine nella bibbia ebraica è più correttamente «Torah» ovvero, insegnamento.
Questi elementi ci attestano la celebrazione di un cosiddetto «sacrificio di comunione». Il sacrificio di comunione si distingue dall’olocausto per un aspetto decisivo. Nell’olocausto tutta la vittima, mediante il fuoco che la consuma, si innalza verso l’alto, mentre il sacrificio di comunione comporta che solo alcune parti della vittima siano bruciate, perché il resto viene consumato tra coloro che offrono il sacrificio in un banchetto rituale.
Veniamo così a sapere che la morte di Gesù non viene interpretata come il sacrificio del capro espiatorio sul quale si riversano tutti i peccati, ma come, appunto, sacrificio di comunione.
Il fatto che Mosè sparga il sangue in parte sull’altare – che rappresenta Dio – e in parte sul popolo, dice la comunione tra Dio e il suo popolo. Noi siamo abituati a collegare il sangue solamente con la morte, ma nella concezione ebraica antica il sangue è la vita. Quindi questo patto in cui vengono aspersi entrambi i contraenti (il popolo e Dio, rappresentato dall’altare) è un’alleanza di vita proprio perché contratta col sangue. Così come il banchetto solenne che segue celebra la gioia della vita e non la paura dell’ira di Dio!
Tra Dio e gli uomini infatti si parla di un’alleanza e non di una semplice relazione, di un’alleanza celebrata intorno alla tavola. È questo forse il contributo più originale del pensiero ebraico alla storia religiosa dell’umanità. Infatti ancora oggi noi parliamo di «antica e nuova alleanza», di «primo e nuovo testamento» ed è in questo senso che possiamo dare spessore al significato del sacrificio: non è un modo per sciogliere la colpa, non faccio sacrifici per saldare i miei debiti con Dio, ma Dio si allea con me, Dio decide di stare dalla mia parte.
E io cosa devo fare in questa alleanza? Qual è la parte che compete a noi? La risposta ci viene dalle parole stesse del popolo, dopo che Mosè ha terminato di leggere il libro dell’alleanza: «Quanto ha detto il Signore noi lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Curiosa questa risposta, perché mette prima il verbo eseguire e poi l’ascoltare! Com’è possibile che venga prima il fare e solo dopo l’ascoltare e non viceversa, come sarebbe più logico? Forse perché la fede comporta un fidarsi. Mi fido di Dio e allora eseguo ciò che mi dice di fare. Che è esattamente il contrario di quello che noi insegniamo ai bambini: Pensa prima di agire.
In realtà quel gruppo di tribù che fatica a sentirsi popolo, a sentirsi comunità, ha toccato con mano l’amore di Dio per il fatto stesso che lui li ha fatti uscire dall’Egitto e solo dopo questa esperienza gratuita d’amore il Signore chiede l’osservanza della Torah. La legge viene dopo, prima c’è un atto d’amore gratuito ed è per questo che io mi posso fidare di Dio e cerco di corrispondere all’amore che mi ha donato.
Se ci spostiamo sotto la croce, quando l’apostolo Giovanni sente Gesù pronunciare quelle parole: «Tutto è compiuto» e vede il sangue e l’acqua uscire dal suo cuore… si rende conto che qualcosa è giunto appunto a compimento e che qualcosa di nuovo sta iniziando! Si compie una volta per tutte la questione dei sacrifici: con la morte di Gesù non c’è più bisogno del sangue degli animali per dire l’alleanza tra Dio e l’umanità. Perché la parola stessa di Dio si è fatta uomo, il sangue di Dio scorre nelle vene del Cristo. Ed è con lui che inizia la «nuova» alleanza. In che senso è nuova?
Se noi andiamo a leggere nei vangeli tutte le volte che Gesù usa la parola sacrificio, ci rendiamo conto che lo fa per escluderlo. Quando dice ai farisei, citando Osea: «Andate e imparate che cosa vuole dire: Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13 e 12,7), Gesù celebra la sua alleanza a tavola con i peccatori per raccontare loro la misericordia di un Dio che non ha bisogno di sacrifici. Proprio dove massima doveva essere la separazione tra l’Eterno e i peccatori, egli realizza la massima prossimità. Dove l’uomo religioso impone la giustizia retributiva, che in qualche modo il sacrificio provvede a sistemare, Dio irrompe con l’amore misericordioso.
Se la croce fosse sofferenza e morte come un sacrificio per espiare, voluto da Dio per trovare soddisfazione all’offesa ricevuta a causa del peccato umano, tradiremmo il dono di Gesù. La croce è l’esperienza di un amore che va fino in fondo e che per questa sua fedeltà, porta su di sé gli effetti di sofferenza, di morte e di delirio di quanto accecati respingono il suo amore incondizionato.
Noi rischiamo talvolta di tornare indietro su questo, ad esempio nella liturgia eucaristica e solo nella lingua italiana il celebrante dice: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi», mentre nel testo evangelico è scritto: «Questo è il mio corpo che è dato per voi» (Lc 22, 19).
Il sacrificio è un’invenzione persecutoria scaturita dall’angoscia umana, non è volontà di Dio. Gesù sulla croce mostra la via che rompe la catena della violenza sacrificale realizzando un amore senza riserve. Gesù mostra che prendere la croce su di sé e portarla, vuol dire amare e sollevare altri dalla croce inflitta come oppressione e morte, attraversare questa oppressione e generare liberazione dal male. Se le cose stanno così la croce non è un sacrificio se non dall’ottica di quanti hanno voluto questo omicidio. Non è un dolore offerto a Dio, perché è Dio che nel sangue di Gesù si dona all’umanità.
Il dono unico che Dio aspetta, l’unica cosa che non è ancora sua, è la nostra libertà, è la risposta del nostro amore. L’unico e vero sacrificio può essere quindi soltanto il nostro «sì», perché la morte di Cristo non è una distruzione, non è la glorificazione della sofferenza, ma è l’estremo gesto d’amore nel quale il Signore con le sue braccia aperte ci abbraccia.
Attingiamo ogni domenica a questa sorgente dell’amore e della nuova alleanza che è l’eucaristia, per imparare che cosa voglia dire vivere la misericordia e non tornare a praticare i sacrifici.