V DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Lc 6, 27-38
(Lc 6, 27-38)
Dopo aver ascoltato gli imperativi di questa pagina evangelica, potremmo a ragione considerarci, per usare una metafora sportiva, «fuori gioco». Ma il nostro accostamento alla parola di Gesù non può mai essere quello di chi la misura immediatamente sul proprio stato d’animo per applicarla tout court alle nostre condizioni… Quando ci accostiamo alla parola di Dio, sia essa del Nuovo o del Primo testamento, non dobbiamo mai dimenticare che sempre si colloca in un contesto preciso, si riferisce a un ambiente con tutte le sue sfumature e complessità storiche, culturali e spirituali… per cui noi dobbiamo compiere la gioiosa fatica, per quanto ci è possibile, di ritrovare quel contesto e di capire a chi rivolgeva Gesù quelle parole, in quale momento della sua vita si situano e anche l’intenzione dell’evangelista che le ha scritte rivolgendosi a una comunità concreta e precisa che lo ascoltava e alla quale consegna questo testo scritto.
Solo dopo questo lavoro ci è dato di domandarci: ma a me, a noi questa parola cosa dice? In che cosa mi interroga? È di consolazione oppure richiamo? Mi incoraggia o mi mette davanti a un cambiamento necessario? Quale luce fa dentro di me e nella chiesa in cui vivo?
In particolare, quella che abbiamo ascoltato è la pagina che segue le beatitudini di Luca. Beatitudini che Gesù pronuncia in una condizione delicata e difficile: ha appena scelto i Dodici che non sono l’élite di Israele, non sono persone particolarmente «religiose», non sono né teologi né asceti… anzi. E poi i vangeli notano che da questo momento Gesù e gli apostoli si vanno spostando da un luogo all’altro, evitano le grandi città e frequentano luoghi secondari al punto che diventa difficile sfamare le folle che li seguono… insomma questo gruppo cammina ai margini dell’ufficialità, certo ha sempre come riferimento la parola di Mosè, la promessa antica, ma ha un diverso modo di vivere, non sempre viene capito, anzi è un gruppo che viene guardato con diffidenza e l’ostilità contro di loro cresce sempre più ed è proprio a costoro che il Signore rivolge le Beatitudini cui fa seguito la pagina che abbiamo ascoltato oggi, perché i nemici hanno un volto preciso.
Quello che Gesù dice non sono degli ordini dati a dei subalterni che sono smarriti e non sanno cosa fare, c’è molto di più. Osserviamo insieme un particolare. Secondo Matteo le Beatitudini sono il discorso della Montagna, dove Gesù come un nuovo Mosè proclama la nuova legge appunto sul monte. Invece Luca dice che Gesù pronuncia questo discorso in un luogo pianeggiante, ma curiosamente prima che inizi a parlare, annota l’evangelista: Gesù alzati gli occhi verso i suoi discepoli diceva… Se Gesù alza gli occhi significa che i discepoli stanno seduti sulle pendici della collina e lui è in basso probabilmente sulla riva del lago, così che per rivolgersi ai suoi interlocutori deve alzare lo sguardo. Come dire che Gesù non parla dall’alto di una cattedra, ma stando in basso perché è l’amore che parla, l’amore di chi si mette in basso e alza lo sguardo della misericordia.
La struttura del discorso è articolata come se fosse una pagina da imparare a memoria. Notate i primi tre verbi: amate coloro che vi sono nemici; fate del bene a quelli che vi odiano; benedite coloro che vi maledicono. Poi tre gesti: a chi ti percuote sulla guancia…; a chi ti strappa il mantello…; a chiunque chiede dona… che culminano con la famosa regola d’oro in versione positiva: Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro.
Seguono ancora tre condizioni ipotetiche che richiamano i tre gesti: Se amate quelli che vi amano… Se fate del bene a coloro che fanno del bene… Se prestate a quelli che vi restituiscono… quale gratitudine vi è dovuta? E ancora segue un richiamo ai primi tre imperativi: Amate coloro che vi sono nemici; fate del bene e prestate… per giungere al culmine del v.36 che è il centro di tutto il vangelo di Luca: Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso. Tutto il vangelo di Luca è una variazione sul tema di questo versetto, così che Dante definì Luca come lo scriba mansuetudinis Christi, lo scrivano della mansuetudine di Cristo.
E poi a finire incontriamo quattro imperativi per dire come ci si comporta nella comunità, in quella comunità che è la famiglia e che è la comunità delle persone con le quali si vive: non giudicate, non condannate, perdonate e date. Quattro imperativi, cinque con l’invito alla misericordia che, assommati ai dodici precedenti, diventano diciassette imperativi. Per noi il diciassette è il numero della sfortuna, ma in realtà ha il valore numerico della parola ebraica tov, cioè bello. Questi diciassette imperativi ci restituiscono la nostra bellezza originaria, sono il ritratto del Figlio, della bellezza del Figlio e quindi la bellezza che è offerta anche a noi.
Di quale bellezza parliamo? Matteo nel passo parallelo dice: Siate perfetti… Per lui la bellezza è la perfezione, Dio è perfetto, è compiuto, mentre a noi manca sempre qualcosa. Luca specifica che la bellezza di Dio è la misericordia di cui l’essere umano manca.
Esisteva già applicato a Dio, l’attributo misericordioso anche nella Bibbia. Nel Corano stesso si dice che uno dei 99 nomi di Allah è di essere misericordioso, ma poi appunto si aggiungono anche altri sostantivi, ovvero che è anche giudice, che è anche giusto… Gesù in Luca ci dice che Dio è misericordia.
E come sappiamo misericordia in greco traduce la parola ebraica rahamim che indica l’utero materno, come a dire che Dio è Padre e Madre, così che potremmo rendere l’invito di Gesù: amate dell’amore materno con cui ama il Padre. A noi che continuamente lo pensiamo onnipotente, onnisciente, creatore e padrone di tutto… ecco, dice Gesù, Dio è Padre e la sua essenza è essere madre.
E facendo l’esperienza di questa tenerezza di Dio, allora dice Luca: diventate misericordiosi. Non come traduce la nostra Bibbia: «siate misericordiosi», ma diventate perché tra l’essere e il non essere c’è il divenire. Diventate ciò che siete, ovvero figli di quel Dio che è Padre e madre così come lo ha rivelato Gesù. È il figlio che parla e che offre alla comunità che si va formando intorno a lui e ai Dodici che sono ai margini della società ufficiale, il parametro dell’amore del Padre e appunto il fondamento di questo annuncio è quello della chiamata battesimale di Gesù al Giordano: «Tu sei mio figlio l’amato!».
Cos’è venuto a fare Gesù sulla terra? È venuto a dire la bellezza di Dio amando anche coloro che gli erano nemici, perdonando chi gli faceva del male, in quanto figlio di un Dio che ha tanto amato il mondo, quel mondo inteso come nemico di Dio, al punto da dare la sua vita per questo mondo che lo uccide. In realtà allora questi imperativi prima di dire quello che dobbiamo essere, sono degli indicativi per descrivere chi è Gesù, il Figlio che ci rivela la misericordia del Padre e ci chiede appunto di essere misericordiosi come è misericordioso il Padre.
Alla luce di questo, possiamo ora domandarci: cosa dice a noi questa parola. Non ne abbiamo il tempo, ma non sarebbe nemmeno giusto, occorre che ognuno di noi a ragione continui nella sua preghiera settimanale la meditazione sulle parole di Gesù. Io mi soffermo solo sul primo dei quattro verbi della comunità, quando dice Non giudicate e non sarete giudicati. Giudicare che cos’è? È la prima cosa che facciamo quando vediamo una persona, la pesiamo, la valutiamo, la misuriamo, la passiamo al setaccio e così filtriamo la farina e tratteniamo la crusca! La parte buona scivola via e rimangono i difetti.
Ma Dio non fa così. Certo anche Dio giudica, ma l’uomo proprio perché ha un occhio cattivo giudica l’altro cattivo, mentre Dio è buono e giudica l’uomo buono e il giudizio di Dio in tutti i vangeli è la croce di Cristo, per cui il giudizio di Dio è che l’uomo è così buono che vale la pena che Dio crepi in croce per lui anche se lo ammazza e non sa nemmeno quello che fa. Perché se volesse dire come intendiamo noi: «non giudicare in assoluto» in greco ci sarebbe l’aoristo, invece c’è un indicativo presente che significa: smettetela di giudicare, non continuate a giudicare. È un imperativo presente negativo che vuol dire: «Siccome sempre giudichiamo, incominciamo a smettere di giudicare».
Da questi versetti si capisce la forza del cristianesimo che è una forza particolare che può cambiare il mondo. Pensate al secondo imperativo, perdonate, e guardiamo alle nostre famiglie: quante volte mettiamo sulle spalle dei nostri figli enormi pesi di incomprensioni, di litigi, di avidità tra parenti, nella stessa casa… e perpetuiamo così una storia che continua a replicare odio e rancore. È questa la responsabilità che ci è affidata: imparare da Gesù ad alzare i nostri occhi verso l’altro, mettendoci in basso per essere capaci di perdonare, di pregare e di amare. E non è solo questione di senso di colpa, è soprattutto una responsabilità, perché il mondo che lasciamo e che consegniamo ai nostri figli migliora certamente con il progresso scientifico, tecnico, culturale… ma non c’è progresso più decisivo della consegna di un mondo capace di riconciliazione.