DOMENICA DELLE PALME messa nel giorno - Gv 11, 55-12, 11
(Is 52, 13-53,12; Gv 11,55-12,11)
Gerusalemme doveva essere molto inquieta in quei giorni. Inquieta era sempre alla vigilia di Pasqua: basti pensare che la città che normalmente aveva 25mila abitanti, arrivava ad accogliere anche centomila pellegrini.
Dunque Gerusalemme era un fermento come succedeva durante le grandi feste, anche perché in quelle occasioni non mancava mai qualche aspirante messia che si mettesse a predicare per raccogliere dei seguaci, creando non pochi problemi di ordine pubblico. Quell’anno il motivo differenziale dell’agitazione e dell’attesa, dice Giovanni, era Gesù. Molti lo aspettavano, anche se le attese erano diverse.
Per molta gente che veniva dalla provincia il viaggio a Gerusalemme per la Pasqua significava uscire dalla vita normale e troppo uguale. Era l’occasione per vedere uomini importanti, che in provincia non si vedevano, era possibile vedere i personaggi di cui tutti parlavano, ma che non era facile incontrare nei giorni ordinari dell’anno.
Il personaggio di quell’anno era appunto Gesù, anche perché pochi giorni prima di Pasqua aveva compiuto un gesto prodigioso, aveva richiamato in vita l’amico Lazzaro che era morto da quattro giorni. Di quel gesto tutti parlavano e tutti volevano vederne l’autore da vicino.
Gesù a Gerusalemme s’era fatto vedere poco, ma la sua fama lo aveva preceduto. La domanda che gli abitanti della città si facevano era se sarebbe stato possibile assistere finalmente al confronto tra lui e i capi, sapevano infatti dei contrasti con il Sinedrio. Non pochi erano dibattuti e non capivano le ragioni di quell’opposizione. L’incontro avrebbe finalmente consentito di chiarire le cose, o almeno così si pensava.
La gente aspettava l’incontro pressappoco come si aspetta un match importante. Si facevano anche pronostici: Verrà o non verrà alla festa?
Aspettavano Gesù anche i sacerdoti e gli scribi. Avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse; lo aspettavano per farlo finalmente tacere.
Lo aspettava anche Maria di Betania, figura del vero discepolo. Lo aspettava in silenzio. Non aveva parole per dire la sua gratitudine e la sua gioia, ma aveva tenuto da parte 300 grammi di nardo (un unguento di valore eccezionale perché veniva dalla lavorazione di radici della pianta di nardo che cresce ancora oggi sulla catena montuosa dell’Himalaya) così che quando viene a cena da loro, senza dire nulla, si mette a ungere i piedi di Gesù e ad asciugarli coi suoi capelli.
I presenti probabilmente erano un po’ imbarazzati e avrebbero preferito far finta di niente. Ma come si poteva fare finta di niente? Maria era pure silenziosa, ma quel profumo era molto più eloquente: Tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo, annota Giovanni.
Ecco allora Giuda intervenire con odiosa tempestività: Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri? Giuda, che occupava un ruolo non marginale nella comunità dei discepoli, era quello che teneva i soldi, ci fa sapere l’enorme valore del nardo pari allo stipendio di un anno di un operaio medio.
Ma quello che disturba più ancora del fatto che rubasse – e succederà sempre, forse è inevitabile che si rubi – è il fatto che egli si serva delle parole del Vangelo, che tiri in ballo i poveri che non gli interessano più di tanto… questa è la cosa più dura da sopportare. È come se dicesse a Gesù: «A quella cosa lì potevi rinunciare… Cosa te ne fai di un profumo? Anche tu predichi bene, ma razzoli male. Non lo si poteva vendere e ricavare qualcosa per i poveri?».
Succede ancora oggi con quelle persone a cui non interessa niente né del prossimo né del Cristo, né dei poveri, né di nulla, eppure si riempiono la bocca di parole cristiane, si servono dei simboli cristiani… secondo una volgarità diffusa che va in scena quasi ogni giorno. Funziona sempre e in molti abboccano.
Insomma Giuda si tradisce e – come sempre succede – in modo maldestro dice chiaramente che la cosa cui tiene di più è la borsa. E chi tiene la borsa in genere obbedisce a quella legge inscritta nell’egoismo dell’uomo per cui la si vuole sempre più piena, sempre più gonfia, sempre più pesante.
Non solo, ma lo sguardo di chi tiene la borsa è tutto proiettato lì, e così non vede altro. Come a confermare la parola di Cristo: Dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore. Infatti per la borsa, intesa come simbolo di possesso che prende le connotazioni dell’assoluto, si è pronti a vendere anche le persone, a vendere perfino Dio.
Davanti a Gesù si fa evidente il contrasto tra i due segni: se la borsa evoca la chiusura e l’interesse di parte, il profumo che invade tutta la casa evoca un amore che si diffonde e rende la casa più vivibile per tutti.
Maria con quel gesto si è fatta più povera. Giuda voleva farsi più ricco.
Non vorrei semplificare troppo, ma non è racchiusa qui in sintesi anche la nostra condizione attuale? Non è qui è la cifra anche dell’ inquietudine di un occidente che si scopre sempre più agitato e incapace di futuro?
In fondo questo tempo di crisi e di recessione che ci costringe a ridimensionare tante cose cui eravamo abituati, al di là della sua governabilità tecnica o politica, ma a un livello più sapienziale e profetico, cosa ci sta insegnando?
Se vogliamo togliere l’odore di morte da questa nostra terra dobbiamo metterci ai piedi di Gesù e imparare a vivere sotto il segno meno: meno ricchezza, meno prodotti, meno consumi. Più poveri insomma, ma per essere capaci di più amore e solidarietà affinché la casa comune sia inondata del suo profumo. Se davvero il Cristo è il centro del nostro cuore, accettiamo di farci più poveri. Se vogliamo rendere più abitabile la casa comune, il mondo e la terra non possiamo più inseguire l’idea di un continuo arricchimento.
«La scelta è fra essere poveri nella consapevolezza della propria condizione storica e antropologica, da un lato, e dall’altro essere poveri nell’assoluta inconsapevolezza di ciò che è avvenuto e quindi soggetti a tutte le frustrazioni possibili» (E. Berselli, L’economia giusta).
Da sempre questa è la via dell’Eterno, questa è la strada della salvezza, come ci ricordava Isaia nella prima lettura. Il servo del Signore non è uno che ama soffrire, uno che cerca il dolore fine a sé stesso, o si macera in una povertà triste. Piuttosto è uno che ha spogliato se stesso per portare il peccato di molti, per amore.
La paradossalità del mistero pasquale è preannunciata sulla soglia della Settimana santa: per vivere bisogna saper morire. Per il gesto di Maria di Betania che per amore si fa più povera, avviene che la casa sia inondata del profumo della vita; così come per l’amore di Gesù che arriva a donare sé stesso, la storia umana conosce il profumo della vita eterna. Di esso siamo chiamati a inebriarci nei prossimi giorni per essere a nostra volta, come dice Paolo il buon profumo di Cristo (2 Cor 2,15) nella casa comune.