OTTAVA DEL NATALE DEL SIGNORE - Mt 2, 13b-18


Quel Gesù che è stato annunciato prima a Maria e a Giuseppe e poi anche ai pastori come Salvatore, quando nasce in realtà entra a far parte della schiera degli scampati a una strage e va a ingrossare la fila dei milioni di profughi che nella storia del mondo sono costretti per vari motivi a migrare in terra straniera. Non è avvenuto quel cambiamento delle cose nel mondo che ci si poteva aspettare da un salvatore! Come non potrebbe esserci un mondo diverso ora che è venuto Gesù e che appunto si presenta come colui che salva? Invece sembra che di questa salvezza non si veda ancora l’inizio, perché veniamo immersi subito nelle violenze e nelle crudeltà della storia: il ricordo della strage dei bambini di Betlemme, va di pari passo con la strage di bambini in Pakistan, con i bambini soprattutto africani costretti a fare i soldati, con i bambini vittime di violenza, abusati…

La storia sembra restare quella di sempre, sembra che non cambi mai nulla, con i potenti di turno che per tenere il loro potere non si fermano nemmeno davanti ai bambini.

Lo stesso Gesù, annunciato come «il Salvatore», è costretto a fuggire, la sua famiglia diventa ben presto una famiglia di profughi, come racconta Matteo nel primo quadro del vangelo. È un racconto breve di pochi versetti: Nella notte Giuseppe prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto. In Egitto perché lì c’erano già altri connazionali, esisteva infatti un numerosa colonia ebraica (250 mila immigrati).

Gesù fuggendo in Egitto come un profugo non sembra proprio salvare nessuno, anzi è costretto a fuggire per salvarsi!

Matteo ci offre un’indicazione importante per comprendere le cose e lo fa citando il profeta Osea, al v.15: Perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio (11,1).

Chi è questo figlio? Per noi è immediato il riferimento a Gesù, ma per Osea il figlio in questione è il popolo d’Israele che nel deserto ha vissuto la sua condizione di pellegrino. E questa esperienza sarà fondamento della fede ebraica, non è un’esperienza da dimenticare, anzi è proprio importante tenere viva la condizione di profughi, forestieri e pellegrini, al punto che «Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso perchè anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Lv 19, 33-34).

Questa è la nostra condizione, siamo pellegrini, forestieri, non dimentichiamolo. Gesù stesso è il salvatore che per salvare deve salvarsi.  Questo è il primo quadro evangelico, un quadro sempre aperto… Come non pensare alla situazione ancora attuale per le famiglie che con le cosiddette “carrette del mare” compiono il percorso inverso rispetto a quello della famiglia di Nazaret, dall’Africa verso l’Europa? In questo primo quadro evangelico è descritta la condizione della storia umana, della storia di sempre, del popolo d’Israele, ma anche di tutti i popoli.

Con la seconda scena del vangelo dove si racconta la strage dei bambini di Betlemme, usciamo dal deserto per entrare nel palazzo di Erode. Usciamo dalla condizione della precarietà e della provvisorietà che è quella più vera della nostra vita, per entrare nel palazzo degli intrighi e della corruzione. L’imperatore Augusto, con un abile gioco di parole in greco, soleva ironizzare su Erode: «Nei territori di Erode è molto meglio essere un porco che un figlio» (in gr, porco si dice us, e figlio uiòs). Infatti se per gli ebrei i porci non venivano ammazzati perché non era consentito mangiarli, Erode invece non aveva esitato a liquidare figli, mogli e parenti sospettati di tramare alle sue spalle. Per cui questa strage non fu un gesto isolato, non ci meraviglia che sia stato capace di far eliminare i coetanei di Gesù, che nel villaggio di Betlemme dovrebbero essere stati, secondo gli storici, circa un ventina[1].

Anche il senso di questo fatto terribile, Matteo lo condensa in una citazione del Primo testamento, questa volta tratta dal profeta Geremia, che è anche riportato dalla prima lettura: Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.

Matteo cita Geremia perché è il profeta che ha assistito alla distruzione di Gerusalemme (587 a.C.) e alla conseguente deportazione a Babilonia della sua gente. Cosa ha visto Geremia? Ha visto la fila di uomini, donne e bambini con il piccolo fagotto delle loro cose che sono stati concentrati sull’altura di Rama a 9 km da Gerusalemme (vicina all’attuale Ramallah), dove appunto c’era il campo di concentramento da dover partivano per essere deportati. Di fronte a questa scena gli occhi di Geremia si gonfiano di lacrime e è tale il dolore che il profeta immagina l’ombra di Rachele uscire dalla tomba per piangere i figli caduti e deportati. Rachele infatti era stata la moglie amata di Giacobbe ed era morta partorendo Beniamino, il figlio prediletto, ed era morta appunto sulla strada di Rama, nei pressi di Betlemme, dove ancora oggi è venerata la sua tomba, ma ora non piange più solo la morte del proprio piccolo, bensì la morte del proprio popolo (Gen 35,19)!

Il pianto di Rachele diventa in Matteo, il pianto delle mamme che hanno avuto i propri bambini uccisi per mano dei soldati di Erode, ma diventa icona del pianto di tante donne, di tante famiglie nella storia che hanno subito e continuano a subire tale violenza. Ancora oggi s’innalza il grido di innocenti, di famiglie, di madri e di padri che si rivolgono a Dio: perché? Vorremmo anche noi con loro che Dio cambiasse la storia, cambiasse il cuore delle persone, ma Dio non si sostituisce a noi, si ferma sul confine della nostra libertà, non ci toglie le nostre responsabilità, non cambia la storia, ma la salva.

In che senso parliamo di una storia salvata, di quale «salvezza» parliamo? Le due citazioni profetiche con cui Matteo accompagna il racconto delle cose, dicono che c’è una parola di Dio anche là dove la storia sembra prigioniera della malvagità degli uomini, del loro cuore di pietra, della loro libertà schiava del peccato, di fatto è Dio che rimane Signore della storia e la conduce verso una salvezza insperata.

C’è un pianto che continua a non poter essere consolato, ma c’è anche una speranza che non può essere soffocata, ricorda Paolo, quella dell’intera creazione che attende di essere liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Il pianto inconsolabile diventa un’apertura, un grido che sale, che attraversa i confini dei mari e dei deserti, per arrivare fino al senso ultimo della storia. Ma nel frattempo? Certo noi crediamo che anche questo dolore un giorno sarà riempito di senso, ma oggi cosa possiamo fare?

Anzitutto partecipiamo alle vicende di tanti poveri, clandestini, migranti, profughi… con uno sguardo di fede e di umanità: li amerai come te stesso perchè anche voi siete forestieri. Gesù, il profugo di Betlemme che ha condiviso la condizione precaria dell’umanità, ci ricorda che siamo tutti stranieri e pellegrini, che la terra è di Dio e che anche a noi è chiesto un cuore capace di prenderci cura dell’altro e questa è l’esperienza di salvezza che possiamo già vivere qui nell’attesa di entrare finalmente nella gloria della libertà dei figli di Dio.

E poi, un’altra cosa si insegna il Vangelo. In realtà non è riportato nella pagina di oggi, lo ascolteremo all’epifania, perché i Magi sentite le intenzioni di Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.  In attesa della liberazione della storia, non possiamo stare con le mani in mano, ma possiamo inventare strade nuove, sentieri di riconciliazione, dove la violenza cede il passo al dialogo, dove il rifiuto lascia il posto all’accoglienza… sono quei sentieri di Isaia che abbiamo ascoltato nelle domeniche di avvento e che anche a noi è dato di percorrere con coraggio e fede.

(Ger 31, 15-18.20; Rm 8, 14-21; Mt 2, 13b-18)

[1] Raccontato dallo storico latino Macrobio (V sec).