VI DI AVVENTO Domenica dell’Incarnazione o della Divina Maternità della beata Vergine Maria - Lc 1, 26-38a


(Is 62, 10 – 63, 3b; Fil 4, 4-9; Lc 1, 26 – 38)

Sarebbe una grave contraddizione se mentre ci disponiamo a celebrare la festa di Natale, dell’incarnazione di Gesù, del suo diventare uno di noi, non tenessimo conto della nostra realtà, di quello che stiamo vivendo. Quotidianamente ci misuriamo con una condizione fragile che ci fa stare come sul ciglio di un burrone con pensieri e sentimenti di incertezza, di timore, di insicurezza per noi, per i nostri figli, per un futuro che sfugge al nostro controllo e per un sistema che ci pareva garantito e che invece non sappiamo quanto reggerà. Per di più registriamo in queste settimane gli atteggiamenti più assurdi di chi crede che la violenza omicida possa essere una soluzione o di chi si trincera nell’egoismo, se non nell’indifferenza.

Cosa ci può dire questa pagina di Vangelo che abbiamo detto essere parola del Signore per noi? È una pagina notissima che sembra raccontarci un evento, un fatto del passato e che può avere ben poco da dire oggi a noi che siamo presi in tutt’altre preoccupazioni.

La liturgia ambrosiana ci invita a vivere questo nostro tempo dalla parte di Maria, dalla parte di una ragazza destinataria di una cosa più grande di lei e noi con lei condividiamo le obiezioni, gli interrogativi, l’inquietudine che la attraversa.

In genere ci concentriamo sull’ultima espressione del vangelo quando Maria dice: Ecco la serva del Signore avvenga per me secondo la tua parola.  Però non dobbiamo dimenticare che prima Maria di arrivare a quella disponibilità si pone delle domande, anzi all’inizio non osa nemmeno esplicitarle: rimase molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. Maria ci insegna a pensare anzitutto, a cercare di comprendere e a interiorizzare.

Siamo anche noi così: le cose che accadono ci turbano, ci fanno pensare, perché noi avremmo fatto dei progetti nella nostra vita, vorremmo realizzare i nostri obiettivi, vorremmo dirigere le cose come pensiamo e crediamo sia giusto.

Vedete come l’uomo occidentale è molto malato di progettualità, e anche noi – contagiati da questo virus – pretendiamo di progettare la vita, nel senso che contempliamo in qualche punto del cielo, magari in quella complessa costellazione che sono i nostri desideri, un bel modello, un ideale, perfettamente costruito a misura del nostro bisogno e delle nostre aspettative e quindi cerchiamo di realizzarlo.

Poi le cose non vanno proprio così, ci accorgiamo che non funzionano, il progetto ci si rompe tra le mani, come una sfera di cristallo che frantumandosi ci taglia e ci ferisce e noi ci facciamo molto male, perché le speranze frustrate e i desideri delusi generano sempre molta sofferenza.

Credo che anche Maria – Luca ce lo racconta in maniera molto discreta – si sia misurata con questa esperienza umana. Ma come? Io volevo sposarmi con Giuseppe, farmi la mia famiglia e vivere la nostra vita tranquilli … E invece!

Proprio questo travaglio interiore, questo stare tra il progettare la vita – che pure è necessario – e le cose che accadono e che sono diverse da quelle immaginate, può condurre noi – così come ha condotto Maria – a rispondere alla vita più che a un progetto, come a una vocazione.

D’altronde dove avrebbe trovato Maria la forza per continuare a rimanere fedele nel momento in cui la realtà le presenta un conto durissimo? Abbiamo ascoltato le parole dell’angelo Gabriele: «Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo, avrà il trono di Davide e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».

Ma dove? È un figlio un po’ strano, va in giro circondato da un gruppo di pescatori, ha un regno senza confini e senza soldati, si prende cura di lebbrosi e pubblicani, si intrattiene con le prostitute e coi bambini, e poi si vede che bel trono: la croce!

Quante volte sarà riaffiorata sulle sue labbra quella domanda con la quale aveva reagito a Gabriele: «Come è possibile?». Una legittima obiezione. E tante volte è anche la nostra. Che è come domandarci: come possiamo sperare ancora nel futuro? Come è possibile avere ancora fiducia nell’umanità?

Alla obiezione di Maria, così come alle nostre obiezioni, l’angelo non risponde annunciando eventi paranormali, strepitose visioni o apparizioni, ma chiedendo a Maria di saper vedere un segno: Elisabetta anziana parente che tanto attendeva un figlio è al sesto mese di gravidanza, Maria deve imparare a vedere il segno della vita come dono.

Da quanto tempo anche Zaccaria ed Elisabetta avevano in progetto di fare un figlio, ma il progetto non si realizzava … improvvisamente, quando secondo la logica umana non c’era più speranza, la vita ha fatto irruzione come dono nella casa di questi anziani, perché «nulla è impossibile a Dio».

Vedete, se Maria avesse fatto valere la logica del proprio diritto come unico criterio dell’agire, avrebbe potuto dire: no, guarda lascia perdere, trovane un’altra, io ho altri progetti per la testa! Maria – e vorrei mettere con lei anche Giuseppe – sono persone che di fronte alla vita non rivendicano l’assoluto dei propri diritti, della propria ragione, ma del primato del “servizio”. Non perché sia sbagliato rivendicare il proprio diritto o la propria ragione, ma perché non basta, non è sufficiente.

In alcune situazioni, se vogliamo credere che ancora sia possibile un futuro, penso ad esempio durante una malattia, una prova, una crisi, la vita ci chiede un atto di fede. Come Maria di Nazaret accogliamo e assumiamo la prospettiva di Dio per leggere la vita, la storia gli avvenimenti. «Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola».

Dire: «Eccomi» significa dire: «Sono qui». Non altrove. Il contrario dell’eccomi è l’essere altrove nell’inseguire i nostri progetti e le nostre aspettative. Siamo qui in questo tempo, attraversiamo queste difficoltà e non fuggiamo altrove, anche se non è facile. Anche se sorge inevitabile la domanda: Come è possibile? Come è possibile essere uomo di fede così?

« È la domanda della vergine Maria che non riguarda soltanto la concezione verginale. Esprime una fede interrogata: quella che ogni credente vive nell’assumere i problemi, le ansie, gli interrogativi che lo toccano appunto come un uomo, e a cui deve una risposta. Ma nella fede: lasciando che Cristo sia l’interprete ultimo e definitivo dell’uomo e della storia » (G. Moioli).

Davanti a un mondo, a una storia, alle vicende di un’umanità che tante volte sembrano impossibili da cambiare, l’Eterno è la nostra speranza, perchè a lui nulla è impossibile.