DOMENICA NELL’OTTAVA DEL NATALE DEL SIGNORE - Gv 1, 1-14
Questa domenica che si colloca a metà strada tra la celebrazione del Natale e l’inizio del nuovo anno, tra la nascita di Gesù e la giornata per la pace, ci fa ascoltare una pagina straordinaria di Vangelo che è una vera e propria contemplazione del mistero di Dio da parte di colui che era intimo del Cristo.
L’apostolo Giovanni aveva seguito, ascoltato, accompagnato Gesù e nel suo entusiasmo giovanile aveva ascoltato incantato le parole di Gesù e aveva abbracciato la sua causa vedendo quanto amava le persone e quanto odio suscitava intorno a sé. Era proprio preso da quest’uomo che – solo tra i dodici – aveva avuto il coraggio di assisterlo, sostenendo Maria, sotto la croce quando sembrava che tutto fosse finito. Aveva dunque anche provato la delusione, la tristezza e lo sconforto della parabola discendente e terminale di una vita straordinaria, quando inaspettatamente ebbe a vivere un’esperienza unica nell’incontro con Lui vivo e risorto.
Tutto questo doveva avere in cuore Giovanni quando a distanza di anni ormai quasi centenario, vedendo che i testimoni oculari andavano scomparendo, si decise a fare sintesi della sua esperienza per poter tramandare a coloro che non avevano potuto incontrare Gesù un Vangelo scritto.
Come apertura prende a prestito le parole della Genesi: al principio, che è se vogliamo anche all’inizio, ma soprattutto significa alla radice di ogni esperienza umana, al cuore di ogni vicenda che ci riguarda c’è il Logos, il Verbum, la Parola, il Senso, c’è Gesù che ci dice di quanto amore siamo amati da Dio. Quel Dio che nessuno ha mai visto, Gesù viene a raccontarcelo con la parola, con i segni, con la sua vita, con il suo perdono… ed è lui il filo rosso che attraversa le nostre biografie e la storia dell’umanità.
Giovanni ha uno sguardo contemplativo sulla vicenda del Cristo, cosa che a noi risulta difficile non perché non siamo mistici, ma perché più facilmente abbiamo in mente della vita di Gesù uno squarcio, un segmento che può essere una parabola, un discorso, un miracolo… appunto a Natale ci fissiamo solo sull’evento in sé, mentre Giovanni con uno sguardo contemplativo ripensa alla nascita di Gesù a partire dalla risurrezione.
Egli ha visto con i suoi occhi il potere di morte di chi ha voluto togliere di mezzo Gesù, ma ha conosciuto anche il potere enorme del Padre nel vincere la morte e risuscitare il Cristo. Per cui può dire che quella luce che si era accesa nella notte di Betlemme le tenebre non l’hanno vinta!
Quindi Giovanni, per quello che riesco a comprendere della sua parola, mi sembra ci dica due cose.
Anzitutto credere significa riconoscere una grande potenza di Dio, che sembra essere smentita dai poteri forti dell’uomo, dei prepotenti, dei dominatori di questo mondo. A volte sembra che questi abbiano ragione su Dio. Ma il potere di Dio è un potere di vita: avrebbe potuto eliminare Erode, come potrebbe oggi ridurre in polvere i trafficanti di vite umane, i mercanti di morte che spacciano droga, che vendono armi… e invece no. Non solo si ferma davanti alla responsabilità dell’uomo e non si sostituisce a lui, ma apre un orizzonte di vita oltre la morte.
Anche Giovanni che ha visto la persecuzione e il martirio di tanti suoi compagni di sequela, poteva pensare nella smentita del Vangelo, in realtà ha compreso che la forza e la grandezza di Dio sta nell’aprire una vita oltre la morte.
Di conseguenza ecco la seconda cosa che mi fa riflettere della pagina di oggi, Giovanni ci dice che anche chi decide di seguire Gesù partecipa di questo potere: A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio.
È interessante questo potere. Nel nostro linguaggio il termine ‘potere’ assume un significato negativo, meschino… quando si parla di ‘potere’ diventiamo sospettosi per le trame e le iniquità che vi si collegano.
Tant’è che evitiamo di entrare in questa palude, salvo poi compiacerci dei supereroi dei fumetti o dei film che sono dotati appunto di superpoteri… che esprimono un’antropologia interessante di chi vorrebbe avere le capacità atte a vivere all’altezza delle aspettative di una società ipercinetica, ultratecnologica.
Ora Giovanni non intende il potere come dominio politico o militare e nemmeno come capacità stratosferiche di affrontare la realtà, ma parla del potere di diventare figli.
Noi siamo resi figli di un Dio che ha il potere di vincere la morte, che ha il potere di fecondare una vergine (Maria), di far partorire una sterile (Elisabetta)… è un Dio a cui tutto è possibile, perché è “impossibile agli uomini, ma non a Dio” (Mc 10,27; 14,36), allora tutto è possibile a chi crede!
Come è possibile? Si chiedeva Maria all’annuncio di Gabriele, il cui nome significa appunto “potenza di Dio”. Ed è l’obiezione di Zaccaria, il quale crede che Dio esista, ma non crede che egli possa, sia capace, riesca a rendere feconda una coppia sterile! Quando vedrà la nascita del Battista allora sarà capace di cantare: Ha suscitato per noi un Salvatore potente (Lc 1,69).
L’obiezione più immediata riguarda l’impotenza di Dio contro il male, contro la morte… Lui che tutto può perché non ferma il malvagio? Era l’obiezione del filosofo ebreo Hans Jonas: a partire dagli orrori di Auschwitz e degli altri luoghi sinistri di dolore ideati dal nazismo, critica fortemente la concezione ebraica e cristiana dell’onnipotente signoria di Dio sulla storia. Un Dio onnipotente è incompatibile con tanta malvagità: se è onnipotente e non interviene è malvagio, se invece è buono allora non è onnipotente, così Jonas (2).
Giovanni riconosce che la potenza di Dio non coincide con lo strapotere di Erode, di Nerone. Perché anche il malvagio è suo figlio e la potenza di Dio è nel superare lo strapotere di Pilato, di Hitler, di Stalin… non con un superpotere, ma con l’onnipotenza che vince la morte.
Del resto è difficile anche per noi credere nella potenza di Dio. Basta entrare un poco nelle nostre vite e renderci conto che i nostri peccati, le nostre decisioni sbagliate non nascono forse proprio dalla mancanza di fede nella potenza di Dio?
L’avaro non crede che Dio ‘possa’ dare il pane quotidiano a tutti, sicché accumula e in genere ruba.
L’invidia nei confronti degli altri e dei loro successi non viene in definitiva dal fatto che non crediamo che Dio ‘possa’ garantire a ciascuno un posto degno di sé?
E così la pigrizia: ci rendiamo facilmente pigri perché non crediamo che Dio ‘possa’ agire adesso e qui… ma chissà quando, ieri certo, domani chissà… e intanto…
Senza fede siamo ridotti all’impotenza e perciò diventiamo arroganti, presuntuosi, violenti, facilmente schiavi del denaro e sedotti dal potere che domina gli altri.
Con la fede in Dio abbiamo il potere dei figli che dà accesso alla stessa potenza di Dio, allo Spirito di Dio. A ogni uomo, a ogni donna è dato il potere di diventare figli di Dio, figli si nasce, ma soprattutto lo si diventa, somiglianti a Colui che tutto può.
Giovanni imparò ad essere figlio non come gli altri apostoli attraverso il martirio, ma affrontando quella che Madeleine Delbrêl chiamava la “passione delle pazienze” e che dice il nostro potere di figli di fronte al male e ai piccoli mali di ogni giorno di affrontare la passione delle pazienze.
«… Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di ucciderci senza la nostra gloria.
Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
è l’autobus che passa affollato;
il latte che trabocca,
gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gli invitati che nostro marito porta in casa e quell’amico che, proprio lui, non viene;
è il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
è la voglia di tacere e il dover parlare,
è la voglia di parlare e la necessità di tacere;
è voler uscire quando si è chiusi
e rimanere in casa quando bisogna uscire;
è il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
è il disgusto della nostra parte quotidiana,
è il desiderio febbrile di tutto quanto non ci appartiene.
Così vengono le nostre pazienze, in ranghi serrati o in fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.
E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando – per dare la nostra vita – un’occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci son rami che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che se ci sono fili di lana tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno per giorno si consumano sul dorso di quelli che l’indossano.
Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso: ce ne sono di sgranati da un capo all’altro della vita.
È la passione delle pazienze»[1].
(Gv 1,1-14)
[1] M. Delbrêl, La gioia di credere.
[2] G. C. Pagazzi, Tua è la potenza. Fidarsi della forza di Cristo.