IV DI AVVENTO - Lc 19, 28-38
Coerente con quanto aveva fatto fino ad ora, Gesù non sceglie di entrare in Gerusalemme con un manifesto politico o con un proclama rivoluzionario come si aspettavano gli zeloti, e nemmeno con una riforma religiosa come pensavano i sacerdoti… non viene nemmeno per soppiantare il procuratore romano… Gesù entra in Gerusalemme come un profeta.
E come entra un profeta in città? entra con un carico simbolico ricco della storia che lo precede, per questo sceglie un puledro d’asina, che è il modo di presentarsi dei profeti prima di lui, ovvero senza esibizione di forza, di potenza, di sfarzo… il figlio di Dio entra così a Gerusalemme.
C’è una continuità fedele di Dio, un pensiero che viene da lontano. Lo ricordava Isaia nella prima lettura, perché quando c’è una catastrofe (l’esilio del 587) che sembra distruggere tutto, quando accade un disastro che pare cancellare un popolo… allora Dio fa nascere un germoglio anche là dove non si dà un barlume di speranza. La storia procede così: ogni volta che sembra di essere giunti sul baratro del non ritorno, Dio inventa una speranza, ma la inventa alla sua maniera, attraverso un resto, attraverso un piccolo residuo di credenti, grazie alla disponibilità di pochi a fidarsi di lui… fino a quel germoglio che è Gesù.
Gesù è il germoglio di Dio, è la speranza che entra nella città di Gerusalemme, è la profezia di Dio che traccia la strada anche per noi.
Ed è appunto su questo che dobbiamo riflettere: cosa significa per noi seguire il modo dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme? Cosa intendiamo dicendo di accogliere colui che viene nel nome del Signore? Domandiamoci cosa significhi abitare la città nel nome del Signore, vivere la convivenza civile nel nome del Signore?
Ricorderete che il 17 dicembre 2010 un panettiere tunisino Mouhamed Bouazizi si diede fuoco in segno di protesta perché in quei giorni il grano e la farina avevano raggiunto un prezzo talmente elevato da rendere impossibile la loro trasformazione in pane.
Perché il prezzo del grano era salito così tanto?
L’anno precedente, nel 2009 una forte siccità aveva colpito il primo produttore al mondo di cereali, gli USA. L’impatto fu devastante sul mercato, una riduzione del 30% della produzione americana fece incrementare i prezzi a livello globale.
Nel 2010 un’ondata di calore anomala afflisse la Russia. Le immagini televisive raccontano di Mosca e San Pietroburgo avvolte dalle fiamme, la steppa russa invece arida, secca. Il secondo produttore al mondo di cereali vide una riduzione del 20% della sua produzione.
Nello stesso anno ad aprile (2010), il più grande disastro ambientale dell’ultimo secolo si materializzò nel Golfo del Messico. La BP durante le operazioni di esplorazione petrolifera nei fondali del Golfo, provocò per un azzardo tecnologico una fuoriuscita di greggio tale da modificare oltre all’ecosistema dell’area anche il prezzo del greggio sul mercato globale.
L’incremento del prezzo del greggio causò un ulteriore incremento del prezzo dei cereali, in quanto moltissime merci di prima necessità sono vincolate nella formulazione del loro prezzo al prezzo del petrolio. Ho voluto ricordare questi tre disastri climatici ed ambientali, avvenuti nell’arco di 24 mesi, perché anch’essi hanno contribuito a portare il povero panettiere tunisino ad un gesto disperato (www.lenius.it).
Parte della risposta da mettere in campo per ristabilire la pace nel mondo arabo, come in altre zone di guerra del pianeta, passa anche attraverso la riconversione ecologica delle nostre economie e la lotta ai cambiamenti climatici. Dobbiamo riconoscere che molti dei conflitti sorti in giro per il mondo negli ultimi decenni sono stati causati anche dal cambiamento climatico, come nel caso della Siria, colpita a più riprese da forti siccità, così che molti dei profughi in arrivo sulle coste europee del Mediterraneo possiamo considerarli profughi climatici. Dice papa Francesco: «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura» (Laudato sii, 139).
Se comprendiamo le cose da questa prospettiva riusciremo a dare una risposta ad eventi violenti non con la violenza dei bombardamenti, ma con la concretezza di risposte sostenibili. Com’è possibile che il grido allarmato degli scienziati, che paventano un futuro apocalittico per l’intero pianeta nell’arco temporale di pochi decenni, passi sotto silenzio in modo tanto eclatante?
Il fatto è che il riscaldamento globale è uno di quei problemi che, nella mente delle persone, condensa e somma alcuni tra i più cocciuti pregiudizi cui siamo soggetti.
Il primo è legato al fatto che facciamo fatica a cogliere il nostro contributo marginale all’effetto serra: quando ci si sente così insignificanti rispetto a un problema sistemico che produce tali conseguenze, è difficile pungolare le persone a un’azione consapevole.
Il secondo è che i morti prodotti dal cambiamento climatico sono meno percepibili emotivamente di quelli, per dire, di un attentato terrorista. Una stima dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) parla di circa 150 mila morti all’anno causati dal cambiamento climatico. Le vittime da attacchi terroristici, nel 2015, sono state circa 33 mila: il 20%. Non si tratta di stilare una contabilità delle vittime, ma è chiaro come sia diversa la nostra attenzione nei confronti di una bomba rispetto a quella di un’ondata di caldo o di un nubifragio.
Infine, il terzo e ultimo che è quello economicamente più rilevante: il fatto è che le persone tendono a scontare il futuro in modo non lineare, dando più peso ai benefici presenti rispetto ai costi futuri. Il cambiamento climatico rientra assolutamente nella casistica.
Tutti questi fattori concorrono a produrre, in definitiva, un effetto particolarmente indesiderato: non si riesce a trovare il modo di rendere il problema ambientale come urgente in termini di soluzioni politiche, così che guardiamo con grave scetticismo anche alla Conferenza in corso in questi giorni a Parigi (COP 21).
Dobbiamo tornare alla prospettiva da cui siamo partiti e che ci viene suggerita dalla parola di Dio: entriamo nella vita, nella storia, nella città, nel mondo nel nome del Signore, ovvero come vi entra lui, consapevoli che il più grande cambiamento del mondo avviene nel momento in cui ciascuno di noi cambia.
La salvezza del mondo è possibile sempre per il fatto che qualcuno comincia a cambiare. Gesù viene nella città e la cambia dal di dentro, mettendosi in gioco, senza aspettare che tutta Gerusalemme cambi, ma donando se stesso.
Possiamo dare il nostro contributo alla pace in tanti modi, possiamo contribuire a costruire una città pacificata assumendo la cura del creato con piccole azioni quotidiane che diano forma ad uno stile di vita. Se ognuno di noi, benché le proprie condizioni economiche gli permettano di consumare e spendere, abitualmente indossasse un maglione in più e abbassasse di qualche grado il riscaldamento. Se evitassimo l’uso di materiale plastico o di carta, se riducessimo il consumo di acqua… ma anche differenziando i rifiuti, cucinando solo quanto serve per mangiare, trattando con cura gli altri esseri viventi, utilizzando il trasporto pubblico o condividendo un medesimo veicolo tra varie persone, spegnendo le luci inutili, riutilizzando qualcosa invece di disfarcene rapidamente e così via…
«Tutto ciò fa parte di una creatività generosa e dignitosa che mostra il meglio dell’essere umano… può essere un atto di amore che esprime la nostra dignità» (cf. Laudato sii, 211) e forse il panettiere di Tunisi potrebbe continuare ad alzarsi la mattina e a cuocere il suo pane nel forno.
(Is 4,2-5; Lc 19, 28-38)