IV DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 6, 24-35


(Gv 6, 24-35)

Ho iniziato il vangelo con le parole «il giorno dopo», che non sono riportate sul foglietto, perché dire «Il giorno dopo» significa che prima c’è stato un evento importante, ed è necessario che anche noi lo sappiamo per poter comprendere le parole di Gesù. Infatti il giorno prima il Signore aveva moltiplicato i cinque pani d’orzo e i due pesci per la folla che lo seguiva. E per questo motivo sul lago si assiste a un via vai di barche e via terra a numerose persone che cercano Gesù. E come non capire quella gente? Addirittura al v.15 veniamo a sapere che fanno anche un tentativo maldestro di rapirlo per farlo re, tentativo al quale Gesù appunto il giorno dopo si sottrae abilmente.

Non faremmo così anche noi? Non saremmo facilmente disposti a far diventare re o presidente uno che ci risolvesse una volta per tutte il problema del pane? E troveremmo sicuramente qualcuno che ci sta.

Invece Gesù si sottrae, Gesù non cede all’uso che vorrebbero fare di lui, anzi tutto il grande discorso del cap.6 di Giovanni inizia scoraggiando questi tentativi: Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo (v.27). Parole che devono essere suonate come una grande delusione a fronte dell’ansia della gente che pensava così di aver risolto la paura del domani, della disoccupazione, della carestia… Abbiamo trovato uno che ci risolve finalmente il problema!

È la tentazione antica e sempre attuale di servirci di Dio, di farci un Dio a nostro uso e consumo, è il rischio dell’idolatria. E ancora oggi la parola di Gesù ci ripete: Datevi da fare non per il cibo che non dura… «Ma siamo in difficoltà, viviamo una crisi che riduce i consumi, facciamo fatica a far quadrare il bilancio…». Datevi da fare non per il cibo che non dura!

E qual è il cibo che dura? Credere in colui che Dio ha mandato (v.29). Credere in Gesù, amare lui, assimilare il suo pensiero, mangiare la sua parola… ecco cos’è il cibo che non muore e di cui abbiamo bisogno.

Il cibo che rimane per la vita eterna è la parola del Figlio! La simbolica del mangiare che attraversa tutto il cap. 6 di Giovanni all’inizio riguarda il mangiare la parola di Dio e infatti Gesù si ricollega all’esperienza fondante dell’Esodo. La parola di Dio ha garantito quel cibo misterioso che ha consentito a Israele di vivere quarant’anni là dove nessuno ha mai potuto sopravvivere a lungo. Così, analogamente, i profeti diranno con Amos: «Ecco verranno giorni in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore»(8,11-13).

Ora darsi da fare per il cibo che non muore significa credere in Gesù, assimilare la sua Parola, fidarsi di quello che lui dice e fa. È la persona di Gesù la risposta alla fame. È lui il pane vivente! Io sono il pane di vita (v.35)!

Questa è la prima delle sette formule con cui Gesù definisce se stesso. Poi dirà: Io sono la luce (8, 12); la porta (10, 7.9); il buon pastore(10, 11.14); la risurrezione (11, 25); la via (14, 6); poi conclude con la settima: Io sono la vite (15, 1.5).

La prima è il pane e l’ultima è la vite: a questo punto possiamo pensare all’Eucaristia, che sarà anche al cuore della seconda parte del cap.6. Nella prima parte il cibo che non muore è la parola di Gesù, nella seconda parte l’Eucaristia. Questo pensiero si traduce anche nella nostra celebrazione, come dice il Concilio, nelle due tavole: la tavola della parola e la tavola del pane e così impariamo a non vedere l’eucaristia in sé stessa come una cosa staccata dalla vita e dalla parola del Cristo. Poiché mangiamo della sua Parola, siamo accolti dal suo amore allora possiamo condividere il pane e il vino e diventare così il suo corpo. Fare la comunione non è semplicemente la conseguenza della consacrazione, ma poiché ascoltiamo la sua Parola, mangiamo questa parola, allora nel corpo e sangue non solo «riceviamo» ma «diventiamo» il Corpo di Cristo.

Vi sarete chiesti perché cantiamo le due invocazioni allo Spirito santo durante la preghiera eucaristica. Non è una strategia per risvegliare l’attenzione durante una preghiera che il prete fa per conto suo mentre il fedele con la testa tra le mani o con lo sguardo perso nel vuoto pensa ai fatti propri. La prima epiclesi è sul pane e sul vino perché il Signore renda questi doni il corpo e il sangue di Gesù, la seconda epiclesi è sui presenti, sull’assemblea perché lo Spirito santo faccia di noi il suo corpo.

Da questa comprensione dell’Eucaristia che è inscindibilmente Parola e Pane, possiamo aprire il cuore su una dimensione che si dibatte fortemente nella Chiesa in queste settimane, in vista anche del Sinodo straordinario sulla famiglia. Che ci sia un dibattito spero non scandalizzi nessuno, anzi era ora che finalmente venissero esplicitate posizioni diverse su aspetti attuali della vita di fede. Ma notavo il fatto che in genere gli interventi si focalizzano sull’ammissione o meno dei divorziati all’Eucaristia in base alla condizione di vita di chi ha rotto il vincolo matrimoniale, come di una condizione di peccato che non possa essere perdonato.

Il linguaggio esprime tutta una teologia, una teologia che ha dimenticato la Parola del Vangelo quando parla di stato di vita che non rende possibile l’accesso al sacramento… La tradizione orientale che affonda la sua ragion d’essere sul canone 8 di Nicea, prevede una prassi penitenziale prima di celebrare nuove nozze. Ma il problema secondo me non è tanto lo stato di vita di questo o di quello, la questione è che è l’Eucaristia non è nelle nostre disponibilità, l’eucaristia è grazia, è dono! C’è qualcuno di noi che si merita di fare la comunione? Da dove viene questa teologia del merito? La comunione con il Signore è un premio? Donde viene questa teoria che se sei in uno stato di vita di un certo tipo puoi fare la comunione, altrimenti non sei ammesso? Cosa diciamo sul calice: Questo è il sangue versato per la remissione dei peccati! E infatti Gesù ha accolto alla sua mensa Giuda e Pietro… il loro stato era forse più meritorio di tanti che sono feriti nella loro storia d’amore?

Se mangiamo della sua Parola e la sua Parola è offerta appunto anche ai peccatori – e questa è stata la prassi del Cristo – perché noi dobbiamo limitare l’accesso al pane vivente che è Gesù?

È il suo Spirito che trasforma il pane e il vino, è il suo Spirito che ci rende corpo del Cristo. Non è un merito nostro. Entrare in comunione con Cristo è la conseguenza di un duplice dono dello Spirito che scende sui doni del pane e del vino e che scende sui presenti per farne un solo corpo.

Aveva ragione Martini quando auspicava che la questione dovesse essere posta diversamente: «La domanda se i divorziati possano fare la comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse».

È proprio a partire da una visione evangelica dell’eucaristia che la chiesa non può ergersi a padrona dei sacramenti smentendo con le sue regole la prassi del Vangelo, e da questa visione dell’eucaristia come duplice dono dello Spirito santo che dobbiamo guardare alla sfide pastorali di oggi.

Gesù ha scelto la metafora del cibo e della bevanda per donarci il suo amore, e queste sono le categorie universali per eccellenza per venire incontro al desiderio e alla fame e alla sete di ogni uomo, altrimenti avrebbe inventato delle classifiche, avrebbe inventato delle graduatorie per far vincere i migliori… Ma saremmo rimasti ancor con il cibo che non dura. Il cibo che dura è l’amore di Dio che è misericordia e salvezza per l’uomo e la donna, per tutti… Gesù è il pane vivente, siamo noi più autorevoli di lui per donarlo solo ad alcuni?