VII DI PASQUA o Domenica dopo l’Ascensione - Lc 24, 13-35


Proviamo a immaginare un ritorno diverso dei due discepoli. Hanno appena imboccato la strada che li riporta a Gerusalemme e cominciano subito a discutere: «L’ho riconosciuto per primo io!», «No, dice l’altro, io l’ho capito prima di te» e ognuno a proprio modo cerca di descrivere la sua versione di quell’ incontro… «Guarda che voleva dire questo», «Ma cosa dici? la sua intenzione era un’altra…».

Più vanno avanti e più la discussione si fa ancor più accesa e cominciano a litigare: «Ho ragione io, tu sei il solito che non capisce niente», «Ma come, io ho frequentato le scuole rabbiniche, non puoi mettere in discussione quello che dico io!»… Poco ci manca che arrivino alle mani, al punto che uno va per una strada e l’altro per un’altra. Piuttosto che continuare a litigare è meglio cambiare strada e prendere le distanze. Ognuno è convinto di portarsi dietro l’autentica esperienza di Gesù. Ognuno è convinto di essere nella verità.

Cosa faremmo noi? O meglio, che cosa potremmo suggerire, quale consiglio daremmo? Cosa potrebbero fare per riconciliarsi?

Noi siamo quei due discepoli, le chiese camminano con quella fiera convinzione, perché entrambi hanno ascoltato Gesù e deve essere stato strepitoso sentirlo mentre cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui (v.27).

Entrambi poi lo hanno visto prendere il pane, benedire e spezzarlo e poi ne hanno mangiato… o forse no! Luca non dice espressamente che ne abbiano mangiato. Quel pane è rimasto lì, in sospeso, spezzato e in attesa di essere mangiato. Potremmo dire un pane sospeso.

Senza mancare di rispetto, mi viene in mente l’usanza del caffè sospeso nata a Napoli durante la seconda guerra mondiale. Per solidarietà in un momento critico della storia italiana, chi poteva pagava alla cassa il proprio caffè e ne aggiungeva un altro da lasciare in sospeso, destinato a chiunque lo chiedesse.

Quel pane di Emmaus è ancora lì in sospeso: è già donato da Gesù, è già spezzato per noi, ma è lì che attende il ritorno dei due discepoli che ancora devono mangiarne!

Non solo, i due discepoli hanno fatto con Gesù quasi undici chilometri, due ore e mezza abbondanti di strada in cui il Signore ha parlato loro di tutto ciò che a partire da Mosè e dai profeti si riferiva a lui, tuttavia è solamente quando si siedono a tavola con lui che si aprirono i loro occhi e compresero anche le Scritture così come le aveva loro spiegate Gesù.

I discepoli lo riconoscono proprio nel momento in cui prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro… è evidente che quello era un comportamento tutto particolare che caratterizzava Gesù quando era a tavola con i discepoli.

Quei quattro verbi, quella quattro azioni erano un comportamento talmente caratteristico a tavola con Gesù che quella verrà chiamata la cena del Signore. Tant’è che le celebrazioni della cena della chiesa primitiva non sono all’origine il rinnovamento dell’Ultima cena di Gesù con i suoi discepoli, ma il rinnovamento della quotidiana comunità di tavola dei discepoli con Gesù.

È impressionante la conclusione che possiamo ricavare da questa sottolineatura, ovvero che la conoscenza di Gesù non proviene nemmeno dall’interpretazione delle Scritture ma solo stando a tavola con lui, da discepoli. È dopo questo tipo di conoscenza che le Scritture acquistano il loro significato, perché è durante la cena che i discepoli conoscono Gesù come il Cristo che doveva venire – e nel quale non speravano più – e quindi è durante la cena che credono in lui e si riaccende la loro speranza.

Traggo due spunti per la nostra vita.

Il primo viene da una costatazione molto semplice: i discepoli di Emmaus sono per strada, fanno della strada con Gesù, ne percorrono dell’altra per tornare… Vediamo ogni giorno quanti popoli sono in cammino: la gente migra, i migranti sono milioni nel mondo che si muovono in cerca di pane, di giustizia, di pace, di libertà. Un cammino che oltre alle difficoltà di lasciare la propria terra, la propria casa, i propri affetti, deve anche misurarsi con i muri, quelli di difesa, quelli dell’ignoranza, i muri dell’ottusità e dell’indifferenza… ma nessuno fermerà questo cammino.

Dal nomadismo al divano è passato molto tempo, lo stesso che divide l’età della pietra da quella della piastrella (Franco Arminio). È arrivato il momento anche per noi di rimetterci in cammino. Camminare per guardare. Camminare perché percepire è più importante che giudicare. Camminare per guardare il mondo davvero com’è e non per come ce lo descrivono altri. Camminare per le vie della città, non solo per allungarsi un poco la vita, ma per renderla più intensa.

Don Milani diceva che l’ascensore è la macchina per ignorare gli inquilini; l’auto per ignorare la gente che va in tram; il telefono per non entrare nella casa dell’altro. Dobbiamo tornare a camminare perché il mondo è grande, è da scoprire e non può essere richiuso nella baracca del nostro io.

Non abitiamo una cittadella con la sindrome dell’assedio, la comunità cristiana non sta rinchiusa in una cittadella fortificata, ma cammina nel suo ambiente più vitale, vale a dire la strada.

Il secondo elemento lo apprendiamo osservando ciò che fa Gesù. Finora abbiamo osservato l’atteggiamento dei discepoli, ma cosa fa Gesù con i due? Anzitutto domanda e ascolta: il nostro Dio non è un Dio invadente. Anche se conosce già il motivo della delusione di quei due, li accompagna ad andare dentro la loro delusione, a dare voce alla loro amarezza. Infatti cosa dicono i due: noi speravamo… noi credevamo che…

Quante tristezze, quante sconfitte, quanti fallimenti ci sono nella vita di ogni persona! In fondo siamo un po’ tutti quanti come quei due discepoli. Quante volte nella vita abbiamo sperato, quante volte ci siamo sentiti a un passo dalla felicità e poi ci siamo ritrovati a terra delusi. Ma Gesù non si ferma e non se ne va… è sempre lì e cammina con tutte le persone sfiduciate che procedono a testa bassa.

E camminando con loro, come dice papa Francesco, incomincia la sua terapia della speranza. Perché la vera speranza non è mai a buon brezzo: passa sempre dalle sconfitte. La speranza di chi non soffre, non è nemmeno speranza.

Al Dio di Gesù non piace essere amato come si amerebbe un condottiero che trascina alla vittoria i suoi annientando nel sangue gli altri!

Il nostro Dio è compagno discreto, attento, sa ascoltare, non ha già tutte le risposte, ma cammina con noi, perché anche attraverso le apparenze contrarie noi continuiamo ad essere amati e Dio non smette mai di volerci bene. È questa la nostra speranza.

La chiesa impara dal suo Signore ad ascoltare le storie di vita, ad ascoltare il racconto delle amarezze così come emergono dal cuore… per poi offrire la Parola di vita, la testimonianza dell’amore, un amore fedele fino alla fine. Ed è così che un cuore può ardere di speranza.

Andiamo avanti con questa speranza, perché lui è accanto a noi e cammina con noi, sempre!

Quel pane preso, benedetto, spezzato e donato è lì, sospeso, attende la comunione. In questi gesti c’è tutta la storia di Gesù e tutta quella che dovrebbe essere la storia della chiesa, una chiesa che viene presa, benedetta e che si lascia spezzare proprio come il pane per realizzare la comunione.

Perché allora non proviamo a immaginare un cammino diverso?

(Lc 24, 13-35)