II DOPO LA DEDICAZIONE - La partecipazione delle genti alla salvezza - Lc 14, 1a. 15-24


audio 31 ott 2021

La parola di Dio ci consegna alcune immagini intorno alle quali cerco di fare qualche riflessione oggi.

La prima immagine è dettata da un verbo centrale nel vangelo, quando nella parabola raccontata da Gesù, dopo che gli invitati hanno declinato l’invito, dice che il padrone di casa si adirò. Aveva organizzato tutto per un banchetto sontuoso, una grande cena, e non una cenetta qualsiasi, e i tre invitati accampano scuse per non andarci.

Il primo: ho comprato un campo… Il secondo: Ho comprato cinque paia di buoi… Segue poi il terzo che rimanda ai sentimenti e alle grandi scelte della vita: Mi sono appena sposato.

Tra l’altro sono persone che stanno bene economicamente: il campo comprato non era di sicuro il primo posseduto; le cinque paia di buoi non erano uno scherzo. Nella letteratura rabbinica si parla addirittura di duecento denari per un bue. Siamo di fronte a due personaggi ricchi.

Ma quello che si era appena sposato, cosa c’entra? Avete notato che sono tutti maschi gli invitati? Qui non abbiamo a che fare con il matrimonio in sé, quello che Gesù fa emergere è l’atteggiamento sbagliato nel vivere l’amore, ovvero con lo stesso piglio del compratore, del possidente… del proprietario.

“La scoperta fondamentale dell’era moderna, scrive un filosofo contemporaneo, non è stata che la Terra gira intorno al Sole, ma che il denaro gira intorno alla Terra” (Sloterdijk).

Questa è la nostra esperienza di ogni giorno. Viviamo nell’ingiustizia, nella diseguaglianza perché alcuni hanno di più, hanno troppo del banchetto della vita, ma se lo tengono gelosamente stretto e non condividono, mentre altri non hanno nemmeno il sufficiente per vivere.

Da qui l’iradiddio.

Dio non accetta quest’ordine di cose, non si rassegna all’ingiustizia e alle disuguaglianze, la sua ira, l’iradiddio, è vedere i suoi figli esclusi dal banchetto della vita, privati delle stesse possibilità degli altri, è vedere un mondo di ricchi sempre più ricchi e di gente spinta sempre più ai margini e all’irrilevanza.

Dio non accetta che riduciamo l’umanità a gironi infernali dove chi scende sempre più giù, scivola sempre più verso il basso, verso la disperazione e la miseria. Cosa fa Dio? Costringe addirittura i poveri ad entrare, sì, li costringe perché quelle categorie elencate (poveri, storpi, ciechi, zoppi…) non avevano nemmeno il permesso di vivere in città.

Per questo il servo li deve in qualche modo forzare: Costringili ad entrare! Così succede che i poveri da sempre hanno interiorizzato il senso di inferiorità, di inadeguatezza, di impossibilità. La colpa è loro se sono in questa situazione. Di contro il ricco pensa: se sono ricco è perché sono bravo, intelligente, capace. Chi è nella miseria se l’è cercata e sta ai margini (Calvino e Max Weber).

I ricchi ancora oggi si sentono gli invitati privilegiati al banchetto della vita e presumono di poterne godere senza remore. C’è sempre un campo da comprare, c’è sempre un acquisto cui non si può rinunciare…

Ed è a questo punto che il padrone di casa si arrabbia molto, si adira! Ecco l’iradiddio: se è ammesso riconoscere al Signore Dio dei sentimenti oltre all’amore, alla pazienza, alla misericordia, dobbiamo accettare che si adiri proprio per le ingiustizie.

Come reagisce alle ingiustizie? Ce lo dice la lettera di Paolo ai cristiani di Efeso con la seconda immagine: l’immagine del muro che Gesù viene ad abbattere (v.14).

Paolo quando scrive ai cristiani di Efeso era in carcere a Roma, passati i 60 anni e ormai vicino al martirio, ricorda benissimo la prima accoglienza ricevuta in quella città. Come sempre quando arrivava in un posto nuovo per prima cosa andava a predicare il Vangelo nella sinagoga. La dura opposizione dei Giudei non deve averlo sorpreso. Di sicuro non prese bene il fatto di aver parlato con loro per tre mesi del regno di Dio e della via di Gesù, senza ottenere il benché minimo risultato.

Lasciò perdere i giudei e si rivolse allora agli altri abitanti di Efeso. Andava ogni giorno nella scholé, una grande sala riservata alle letture e ai concerti in casa di un certo Tiranno, un efesino del quale non sappiamo quasi nulla e da lì nacque una bella e vivace comunità, alla quale si rivolge qualche anno dopo richiamando gli inizi: Ricordatevi che un tempo voi pagani… eravate lontani, ora invece in Gesù siete diventati vicini (v.13).

Paolo ci offre questa immagine di un muro che esiste tra popoli, tra religioni, tra culture e che Gesù abbatte. Gesù è un demolitore del muro di separazione tra pagani e giudei, del muro che c’è tra ricchi e poveri, del muro tra credenti e non credenti. Gesù non si rassegna ai nostri muri, alle nostre ingiustizie, alle divisioni, non sta ottusamente seduto davanti al muro, ma lo abbatte, lo colpisce, per mezzo della sua carne, scrive Paolo.

Simone Weil racconta di due prigionieri che, separati dal muro della loro cella, comunicavano battendo dei colpi sul muro.

In questo gesto semplice, ma straordinario se osservato con cura, accade qualcosa di interessante: ciò che separa unisce. L’ingiustizia separa da Dio, l’orgoglio separa da Dio, la violenza separa da Dio, ma queste cose sono anche il luogo in cui si manifesta la giustizia di Dio, proprio lì, come per i due carcerati, il muro diventa occasione per sapere che Dio è lì, che sta dall’altra parte di quei muri che costruiamo per demolirli come ha fatto Gesù lungo la sua vita.

Certamente questa è una strada in salita, come ci ricorda la terza immagine del monte che ci viene regalata dal profeta Isaia: Gli stranieri che amano il nome del Signore li condurrò sul mio monte santo (v.6-7), dice il Signore.

Al popolo tornato dall’esilio Isaia annuncia l’ammissione al giudaismo dei proseliti stranieri e conclude la pagina di oggi mettendo sulla bocca di Dio queste parole: la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli.

È vero la fraternità, questo saperci tutti figli di Dio e amati da lui, è una strada in salita, è come salire sul monte con tutta la fatica e le energie che richiede, ma alcune volte occorre perseverare, come quando nel salire una montagna avverti il momento di crisi e allora abbassi la testa, tieni il passo per poter continuare e raggiungere la meta.

È una salita che tutte le religioni imparino a rispettarsi e a conoscersi. È una salita pensare che tutti possano godere degli stessi diritti e dei medesimi doveri. È una salita guardare ciò che ci unisce e non solo quello che ci differenzia e ci separa.

Impariamo dalla parabola che ci autorizza ad adirarci, sì, dobbiamo reagire alle ingiustizie, basta cedere all’indifferenza e alla rassegnazione. Il padrone di casa della parabola si adira, c’è un’orghé, un’ira, un’indignazione che non solo è legittima, ma che palesa la convinzione e la passione della sua sete di giustizia.

Esiste un’ira, una collera «positiva», necessaria alla vita umana ed è una sorta di zelo, di rigore positivo che è necessario manifestare di fronte al male, all’ingiustizia, alla sofferenza delle vittime… Addirittura ricorda il salmo «La collera dell’uomo dà gloria a Dio» (76,11).

E poi una seconda cosa: trasformiamo i muri che sono dentro i nostri cuori, le nostre teste, il muro dell’ingiustizia, delle disuguaglianze e guardiamo, ascoltiamo chi c’è dall’altra parte che bussa, che chiama, che urla la sua voglia di vivere e di dignità.

Impariamo a vivere col necessario e dedichiamo tempo a coltivare relazioni e amicizie. Povero, anzi misero è chi inseguendo le cose, come i personaggi della parabola, non ha più una comunità, non ha amicizie.

La sobrietà ci rende migliori perché ciò che ci rende felici non sono gli oggetti o le cose, ma le relazioni che bussano al di là dei muri che andiamo costruendo.

(Is 56, 3-7; Ef 2, 11-22; Lc 14, 1a. 15-24)