DOMENICA CHE PRECEDE IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Mt 10, 28-42


Come è drammaticamente vera la parola di Gesù di oggi: non avremmo voluto noi dare un bicchiere d’acqua, accogliere e offrire soccorso a quei settanta e più Eritrei che per sfuggire a un tiranno sono morti, nell’indifferenza di chi, attraversando il Mediterraneo per lavoro, per affari o per le vacanze ha voltato lo sguardo, lasciando così che il mare diventasse la loro tomba?

L’umanità, la nostra umanità li avrà come giudici con il Cristo quando alla risurrezione ci domanderà: «Avevo fame, avevo sete… e tu ti sei voltato dall’altra parte, hai fatto finta di niente».

La parola di Dio ci aiuta a leggere la nostra storia, a comprendere la direzione della nostra umanità e ad agire di conseguenza.

Come ci racconta la prima lettura di oggi che ci fa passare dal tempo di Elia (IX sec. a. C.) all’inizio del II secolo, al tempo dei Maccabei.

Allora, nel II sec. vivere alla maniera greca, in città dotate della piazza del mercato, l’agorà, con le strade colonnate, i templi, il teatro, il ginnasio, le accademie, le palestre… veniva dai tempi di Alessandro Magno (il quale aveva costruito un impero che non era soltanto un immenso organismo militare e amministrativo, ma soprattutto una grande potenza culturale, + 323) ed era diventata l’aspirazione di gran parte del mondo allora conosciuto.

I nomi delle persone, il modo di mangiare e di vestirsi, di costruire case e di organizzare la comunità, i costumi di vita si ellenizzavano, grazie anche all’universalismo linguistico del greco koinè che divenne la lingua universale nel Mediterraneo euro e medio orientale.

In questo contesto nell’area medio orientale il re siriano Antioco, che si faceva chiamare “Epifane” (epifanés ovvero «colui che si manifesta con splendore», + 164 a. C.), per raggiungere i suoi obiettivi economici e di potere si impadronisce del tesoro del Tempio di Gerusalemme, fa sconsacrare il Tempio stesso e lo adibisce al culto di Zeus.  Molti ebrei si adeguano, pochi si organizzano intorno alla resistenza dei cosiddetti «Maccabei»[1] (soprannome della famiglia degli Asmonei probabilmente derivante dall’aramaico maqqaba, “martello”): i pochi credenti (chassidim) rimasti, resistono e poiché non possono accettare l’«abominio della desolazione», come lo chiama il profeta Daniele (9,27) ovvero che il tempio diventi il luogo del culto di Zeus, diventano come un martello sulle dita insaziabili di Antioco.

La reazione del tiranno non si fa attendere: iniziano persecuzioni come quella impressionante – inserita anche nel martirologio cristiano – dei sette fratelli e della loro madre pronti a morire piuttosto che rinnegare la Torà.

Mentre vengono torturati uno a uno fino alla morte, danno testimonianza di una verità che abbiamo ascoltato dalle labbra della madre nella struggente confidenza ai suoi figli: «Non so come… ma senza dubbio il Creatore dell’universo vi restituirà di nuovo il respiro e la vita».

E poi ancora all’ultimo figlio: «non temere questo carnefice… perchè io ti possa riavere insieme con i tuoi fratelli nel giorno della misericordia».

Questa è la certezza della madre e dei suoi sette figli, davanti al pazzo Antioco (la gente, con un gioco di parole possibile solo in greco lo chiamava non epifanès, ma epimanès, pazzo): Dio risusciterà i suoi fedeli.

Alla luce di questa parola di Dio dico che per noi quegli eritrei morti di stenti e nell’indifferenza di molti, sono qualcosa di più di un fatto di cronaca, sono una parola “profetica” per noi.

Anzitutto sono profeti di una vita che cerca libertà, giustizia e pace, per noi che e siamo ormai abituati a vivere nella libertà, nella giustizia e nella pace e proprio per abitudine e per benessere tendiamo a dimenticare quanto sia costato a chi ci ha preceduto permettere a noi di vivere così oggi.

È costato fatica, sacrificio, fino al sangue per alcuni. E questo dovrebbe ricordarci come il nostro destino personale e il destino di tutti siano legati: siamo proprio sulla stessa barca! Almeno nella memoria di chi si è speso per noi, non possiamo non vedere oggi la sofferenza di tanta umanità.

In secondo luogo, nell’ascoltare la testimonianza dei sopravvissuti mi sembra di udire l’eco della struggente testimonianza di fronte ad Antioco della madre e dei suoi sette figli, una testimonianza di fede in Dio, ma anche sulla vita e su ciò che conta davvero.

Forse quella madre poteva avere i suoi sette figli vivi, rinnegando la sua fede… o poteva convincere loro ad abiurare per salvarsi la vita, immolandosi da sola.

Ma è proprio questa la differenza come ci domanda Gesù chiaramente nella pagina evangelica: c’è per noi qualcosa o qualcuno per cui valga la pena vivere e addirittura dare la vita? c’è qualcosa per cui siamo disposti a morire, a sacrificare la nostra vita?

Gesù stesso avrebbe potuto tacere o passare dalla parte degli ingiusti: allora l’ostilità verso di lui sarebbe cessata e probabilmente non sarebbe stato crocifisso!

Continuando invece ad essere fedele alla volontà di Dio, come un profeta, continuando a passare tra gli uomini facendo il bene (cf. At 10,38), come un giusto, poteva solo preparare il suo rigetto: da parte del potere romano, che vedeva in lui una minaccia alle pretese totalitarie dell’imperatore, e da parte del potere religioso giudaico, che non sopportava il volto di Dio narrato da Gesù.

Così la necessità umana diventa anche necessità divina: non nel senso che Dio, suo Padre, lo voleva in croce, ma nel senso che l’obbedienza alla volontà di Dio, volontà che chiede di vivere l’amore fino all’estremo, esige una vita di giustizia e di amore anche a costo della morte violenta.

Tutta la storia conferma questa necessità intraumana: chi ha sete di giustizia, chi la vive e la predica, incontra ostilità e rifiuto, succedeva ieri con Giovanni Battista il Precursore, simbolo di tutti i profeti, succede oggi con il martirio di gente che paga con la vita ciò in cui crede e per cui vive.

Dobbiamo anche chiarire che oggi si parla anche impropriamente di martirio, specie di fronte al fenomeno dei cosiddetti «kamikaze»[2]. Chiamare “martirio” il suicidio dei terroristi che si dicono islamici è del tutto improprio. Infatti se è vero che il Corano accetta che uno possa perdere la vita per la propria fede (Shaihd), tuttavia proibisce il suicidio. I cosiddetti «kamikaze» sono atti di terrorismo e non di martirio, anche perchè, lo vediamo quasi ogni giorno, distruggono la vita di civili inermi e di cittadini spesso a loro volta islamici.

La realtà del martirio cristiano invece è tornata di drammatica attualità in alcune regioni del mondo come l’India, l’Indonesia, il Sudan.

Ma non dimentichiamo che anche noi abbiamo avuto pochi anni fa alcuni martiri, penso a don Giuseppe Puglisi (15 sett 1993), a don Peppino Diana (19 marzo 1994) il primo a 56 anni ucciso dalla mafia e il secondo all’età di 36 anni dalla camorra.

Preti martiri per la loro testimonianza di giustizia, di onestà e soprattutto perchè volevano strappare i giovani dal modello di vita corrotto e deviato qual è quello mafioso. Martiri per dire l’incompatibilità della mafia con il vangelo.

Hanno creduto in quello che facevano fino a pagare con la vita. Non hanno cercato il martirio: la parola di Dio di oggi e queste testimonianza ci dicono che il martirio non è un progetto da cercare, non è nemmeno un progetto di santificazione personale, ma come ha scritto Bruno Maggioni: «Il martire non sceglie la morte, ma un modo di vivere, quello di Gesù». Ed è proprio questo modo di vivere che comunque conduce al martirio: sarà il martirio silenzioso e incruento di una fedeltà quotidiana, oppure sarà il martirio fino allo spargimento del sangue in un contesto di violenza.

Comunque ciò che contraddistingue il martire cristiano, la sua radicale specificità ed è ciò che domandiamo anche per noi al Signore: l’amore di lui e per lui che vale più della vita.

(2 Mc 7,1-2.20-41; 2 Co 4, 7-14; Mt 10, 28-42)


[1] I due libri dei Maccabei non fanno parte del canone biblico ebraico – anche se l’ebraico fu la lingua originale di 1 Mac che noi possediamo in greco – e quindi nemmeno sono considerati canonici dalle Chiese della Riforma.

[2] Lo sappiamo tutti che con questo termine i Giapponesi indicano il tentativo da parte di aerei guidati da piloti suicidi di creare più danni possibili lanciandosi contro le navi americane. Il termine «kamikaze» ha una storia più antica: sei secoli prima i Mongoli che stavano tentando l’invasione del Giappone vennero dispersi in mare da una tempesta e il Giappone fu salvo. I Giapponesi interpretarono il fatto come un intervento divino e la tempesta fu chiamata appunto «kamikaze», che significa «tempesta degli dei».