VII DI PASQUA o Domenica dopo l’Ascensione - Gv 17, 11-19
Conosciamo bene la preghiera di Gesù che anche noi ripetiamo almeno ogni giorno, il Padre nostro, ma forse non ricordiamo un’altra preghiera quella che ci viene tramandata dal cap. 17 di Giovanni, di cui oggi abbiamo ascoltato pochi versetti, e che ci dice come pregava Gesù (17,11-19).
Anzitutto Gesù prega per noi. Questo è il primo dato, Gesù nel momento in cui celebra l’ultima cena e si appresta ad affrontare il dramma della croce, mette noi in cima ai suoi pensieri: Io vengo a te, Padre santo, custodiscili nel tuo nome. Bellissimo, consolante.
Gesù prega per noi. Egli consapevole ormai che la sua esperienza terrena e umana si avvia all’epilogo, si preoccupa di pregare il Padre per noi.
Se solo ci fermassimo un po’ di tempo e anziché biascicare mille parole, moltiplicare le nostre nenie, lasciassimo entrare nel cuore e nella mente questo dono che Gesù prega per noi, prima ancora che noi possiamo dire anche un piccolo Amen. Prima ancora che possiamo dire Grazie, ecco lui prega per noi.
E quando uno prega per te vuol dire che gli stai a cuore. Io trovo commovente quando qualcuno e sono soprattutto i malati e chi soffre, mi dice: prego per lei. Perché so che avrebbe mille motivi di pregare per se stesso, ma anziché avvitarsi sulle proprie sofferenze, quella stessa sofferenza dilata suo il cuore fino ad abbracciare le fatiche e le sofferenze sicuramente meno impegnative dell’altro. E trovo questa cosa di una bellezza inaudita. Non ti do niente, non ti chiedo niente, prego per te. Non è amore questo?!
Seconda cosa: per quale motivo Gesù prega per noi? Che cosa chiede al Padre? E qui ci sorprende ancor di più, perché quand’anche noi fossimo così bravi da pregare per qualcuno, anche solo per corrispondere la richiesta, noi domanderemmo anzitutto delle cose, chiediamo al Signore la salute, e poi il lavoro … insomma quelle cose senza le quali ci sentiamo naufraghi, insicuri, precari. Gesù cosa chiede nella sua preghiera per noi? Siano una sola cosa, come noi.
Ora fra tutte le cose che Gesù poteva chiedere, è davvero questa la più importante? La sua prima preoccupazione per la quale si rivolge al Padre è che noi siamo uniti, e se Gesù mette in cima alle sue domande a Dio questa cosa, significa che è ben consapevole che noi non ce la facciamo da soli!
Gesù domanda unità, ma cosa intendiamo, quale unità vogliamo? Mentre Gesù pregava c’era già un mondo quasi totalmente unito, perché il mondo più o meno, tutto il bacino del Mediterraneo era sotto un unico potere. Potremmo dire che il mondo occidentale faceva già esperienza di globalizzazione. Ma è questa l’unità? Quella che il potente di turno impone a tutti gli altri il suo stile di vita, il suo dominio, il suo potere e gli altri vengono annullati? Questa è la nostra unità. La nostra unità è l’appiattimento, è l’omologazione, il conformismo, da sempre, anche oggi si va imponendo senza che noi lo vogliamo un unico modello di vita, se agisci così, se pensi così allora esisti, altrimenti non esisti.
La globalizzazione è inevitabile perché l’uomo desidera, cerca la comunione… il problema è che tende a costruire una comunione che annulla le diversità, cancella le alterità, ma siccome siamo tutti diversi rispetto all’altro, cosa succede? Che si annienta l’umanità dell’uomo.
Gesù dice siano uno come noi. Il termine di riferimento è altissimo, è l’unità che c’è tra il Padre e il Figlio: un’unità di amore che è il contrario di quello che facciamo noi. L’unità che propone il Signore è l’unità nella differenza. Conosciamo bene le parole del Credo quando diciamo: Gesù nato da Padre… Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato ma non creato della stessa sostanza del Padre.
Ma per dirla in termini reali e comprensibili? Più semplicemente possiamo affacciarci sulla comunione tra il Padre e il Figlio, osservando la vita stessa di Gesù. Guardando al suo modo di parlare, alle sue azioni, ai segni che pone in atto, al modo stesso di amare.
Nelle parabole, ma anche nei suoi incontri con tutti, soprattutto con i più semplici, il Signore vive e agisce come il Padre che va in cerca di chi si perde, che si mette sulle spalle chi fa più fatica, che ascolta chi in genere non trova ascolto…
La vita di Gesù è tutta lì a mostrare che il suo modo di pensare e di amare, di andare incontro agli altri e anche di fare verità nel cuore degli impostori è quello che farebbe il Padre.
L’unità allora non è uno stato che noi raggiungiamo dopo uno sforzo, è un processo continuo che si costruisce nel rimettere al centro del cuore e della mente, dell’azione pastorale e dell’impegno sociale l’amore e la tenerezza che c’è tra il Padre e il Figlio. Ma è evidente che tutto ciò è arduo, appunto altrimenti il Signore non intercederebbe presso il Padre per noi, per noi che ancora oggi viviamo il grande scandalo ad esempio delle divisioni tra cristiani. Se coloro che si riconoscono nell’unico Padre sono divisi tra loro, che cosa vuol dire? Che i fratelli si scannano, ma questo è quello che fanno tutti. Quello che fanno sciiti e sunniti… quello che da sempre accade nella storia del mondo!
Infatti, ecco il tema del mondo che è il terzo punto che emerge dal vangelo di oggi, e che in Giovanni ha diversi significati: si può intendere come creazione, come universo; o anche come riferimento all’umanità (il peccato del mondo è il peccato dell’umanità). Ma nella preghiera di Gesù è inteso nella sua accezione più negativa di tutto ciò che si oppone all’amore di Dio e che noi possiamo oggi definire come «mondanità»: quando si assumono i criteri del mondo, secondo lo schema vincitori e vinti, quando si asseconda la logica e le regole del potere, del successo, del denaro e di questo nella storia nemmeno la Chiesa ne è stata esente.
Pensiamo al fatto che viene conosciuto sotto il termine di «svolta costantiniana», cioè di una chiesa che diventa essa stessa costantiniana pienamente integrata nelle strutture imperiali, quella che diventa chiesa unica dell’impero. Questo è un fenomeno di mondanizzazione che Gesù intravvedeva fin da subito, e ancora oggi c’è gente che ha nostalgia di una chiesa così, ma lo Spirito come ha fatto nascere ad esempio il monachesimo che rappresentava appunto la reazione ad una chiesa che aveva perso lo slancio evangelico, così non cessa di suscitare oggi ancora forme di vita autenticamente evangelica… anche se poi nei secoli il rischio di tutte queste forme, cui neanche il monachesimo è stato esente, è quello di formare una comunità che si pone come comunità che si sente superiore, che si separa, nel convento e non nel mondo, appunto.
Invece, come diceva Lazzati di cui ricordiamo l’anniversario della morte (18 maggio 1986), nostro compito è non essere del mondo, ma nel mondo per «costruire da cristiani la città dell’uomo». Dove costruire significa lavorare insieme e tutti, per la città a misura d’uomo, per il bene di tutti, per il bene comune, al di sopra e al di fuori di qualsiasi discriminazione ideologica: «I costruttori non possono che essere i cittadini: tutti i cittadini, dai più umili ai più alti, da quelli che portano le maggiori responsabilità, a quelli che compiono i servizi meno appariscenti, a quelli che possono sembrare esterni al cantiere».
Non essere del mondo, ma costruire nel mondo l’unità, la fraternità.
Noi avremmo tutti i motivi a questo punto per rattristarci, per rassegnarci, Gesù invece al termine di tutto questo discorso intercede dal Padre la gioia: Perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia!
Non è la gioia che viene dai risultati, dalle soddisfazioni che possiamo avere: noi possiamo avere la sua gioia, la gioia di Gesù è quella che viene dal suo rapporto col Padre. La gioia viene dal fatto di sperimentare nella nostra condizione di uomini e donne perduti, la salvezza e la gloria di Dio che è amore senza condizioni.
E la gioia è la firma di Dio, il logo di Dio sulle nostre vite quando siamo liberi dentro da ogni ansia di riuscita!
Papa Francesco all’inizio del suo ministero ci ha donato l’Evangelii gaudium, per dirci che oggi più che mai abbiamo bisogno di questa gioia e di donarla come discepoli di Gesù.
Ma sentite queste parole: «Si conoscono le sfide per prossimità e partecipazione, con lo sguardo illuminato dalla sollecitudine».
Ancora quest’altre: «I percorsi si appiattiscono sulla contingenza, ma colgono acutamente il presente perché illuminati da una tradizione e orientati verso un orizzonte, in una prospettiva che non è solo materiale»… ma vi pare? sono parole che danno gioia?
La tristezza è che sono parole che vorrebbero preparare la chiesa italiana al convegno di Firenze (novembre 2015) e che invece dicono come la chiesa italiana sia lontana ancora dallo slancio che papa Francesco sta iniettando nella chiesa: cos’è questo linguaggio autoreferenziale e alla fine incomprensibile? come potrà aiutare la chiesa ad essere improntata alla gioia, alla misericordia, all’accompagnamento?
Ascoltiamo cosa dice papa Francesco: «Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene» (Evangelii gaudium 2).
La nostra gioia viene anzitutto dal fatto che Gesù prega per noi! Questo ci colma di consolazione, e ci dà la capacità di rifuggire la mondanità, quella mondanità che arriva fin dentro la chiesa.
E se Gesù prega il Padre perché siamo uniti, sia questa anche la nostra preghiera.