II DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 5, 19-24


(Gv 5, 19-24)

Dopo aver letto questa pagina di Giovanni abbiamo l’impressione come di inoltrarci in un bosco, in una foresta inestricabile … Ma possiamo superare l’iniziale fatica che è data dal linguaggio di Giovanni, senza farci venire il mal di testa, prendendo alcuni punti di riferimento che credo possano orientarci, appunto come in un bosco, ad accogliere il messaggio del Cristo per noi oggi.

Il tema qual è? Ecco il primo punto di riferimento: Gesù parla di sé e del suo rapporto col Padre e lo fa col vocabolario di un qualunque figlio del suo tempo, cioè partendo dalla metafora del padre che insegna al figlio il suo mestiere.

Se andiamo a leggere il cap. 5 verifichiamo che sia il verbo “fare” che il nome “Padre” ricorrono sette volte. Il fare del Padre viene trasmesso al Figlio, così come, succedeva allora in Israele e forse ancora oggi in qualche parte del mondo, un genitore insegnava il suo stesso lavoro al proprio figlio.

Il lavoro, il mestiere era in genere appunto appreso in famiglia. Così l’artigiano trasmetteva al figlio la sua arte e lo faceva certo come segno di fiducia e di affetto, ma anche come scuola di vita e per la vita: in fondo il figlio imparava a sostenersi ed era reso capace a sua volta di mettere su famiglia.

E se il figlio era intelligente apprendeva molto dall’osservare ciò che il padre faceva e come lo faceva … se era furbo in qualche modo “rubava il mestiere”.

Quando Gesù afferma: Il figlio da se stesso non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa lo fa allo stesso modo … Potremmo dire che racconta una parabola, in maniera implicita, attingendo comunque a ciò che osservava ogni giorno.

 

A chi racconta queste cose il Signore? Gesù è costretto a giustificarsi di fronte a qualcuno che va dicendo: ma chi ti credi di essere?

È importante per noi sapere che le parole del Signore sono una risposta, una reazione per cui deve rendere ragione di sé, di quello che dice e di quello che fa.

Gli interlocutori sono importanti. E chi sono?

Dobbiamo tornare al cap. 5 di Giovanni.

 

Gesù è nel suo primo anno di attività, è salito a Gerusalemme per la seconda volta e alla piscina di Betzatà, famosa per i suoi cinque portici, guarisce un infermo che da 38 anni era immobilizzato e tra l’altro non riusciva mai ad entrare in acqua perché c’era sempre qualcuno più svelto di lui …

Ricordiamo cosa fa Gesù quando gli dice: alzati prendi la tua barella e cammina!

Subito nasce la polemica perché Gesù compie questo gesto di sabato. Annota Giovanni: per questo i giudei perseguitavano Gesù perché faceva tali cose di sabato. Ma Gesù disse loro: Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco (5,16-17).

 

Quindi Gesù dice che lui non fa altro che continuare a fare quello che fa suo Padre! Ma dicendo così afferma che suo Padre è Dio. E come prova che suo Padre è Dio?

Ecco la grande ironia del Vangelo: perché la Scrittura afferma che di sabato l’uomo riposa, ma afferma anche che Dio lavora di sabato.

Il Signore riposa anche lui, ma il settimo giorno, il sabato Dio crea l’uomo, lo fa vivere.

Così Gesù, figlio di Dio, lavora anche di sabato perché il suo lavoro è divino: fa vivere! La vita è il lavoro di Dio.

 

L’attività di Dio sin dal primo istante della creazione è di dare vita e Gesù porta avanti l’opera del Padre superando ogni ostacolo, ogni barriera che impedisce all’uomo di vivere, di vivere bene, con gioia.

Gesù continua l’opera del Padre per la vita dell’uomo.

Addirittura potremmo dire che per Gesù la prima cosa è la vita della gente, non la religione.

Al punto che arriverà a rimuovere – come diceva Paolo nella seconda lettura – anche il più grande ostacolo alla vita che è la morte, perché se il Padre risuscita i morti e dà vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole. Quest’ultima affermazione non è da intendersi nel senso del capriccio (sarebbe una contraddizione in termini) ma nel senso della gratuità.

 

Certamente viene da domandarsi se in una società e una cultura come la nostra abbia senso ancora parlare di Dio in termini esclusivamente paterni e non già anche materni: come parlare di Dio Padre oggi senza menzionare il concetto di madre?

 

Questo è vero, tant’è che il Vangelo attribuisce al Padre talvolta anche i sentimenti e le emozioni proprie della madre, ma dobbiamo stare attenti a non proiettare sull’Eterno le nostre esperienze di paternità o di maternità.

La conoscenza di Dio come Padre non è una proiezione dell’esperienza che abbiamo di chiamare qualcuno sulla terra ‘padre’ e ‘madre’, bensì una rivelazione dell’alto – ci viene cioè rivelata da Gesù, e nel padre e nella madre può trovare conferme, ma secondariamente – nondimeno ogni cattiva prova fatta in questo campo nel seno della famiglia rischia di oscurare l’immagine paterna di Dio caricandola delle amarezze ed esperienze mancate.

 

Pensate a tutte le volte ad esempio che una persona incontra un prete, un religioso, una religiosa, un consacrato da cui viene trattata male o non è capita … qualcosa dell’immagine di Dio si offusca.

 

Pensiamo a quanto nella società di oggi il ‘padre misericordioso’ venga confuso con il padre dalle concessioni facili, che non sa insegnare ai figli a por¬tare i pesi della vita. O al contrario come il richiamo all’autorità pater¬na possa trasformarsi nella formula del padre-padrone, dell’autoritarismo.

 

Il volto di Dio che Gesù ci rivela è il volto di un Padre amante della vita, non è il volto di un Padre padrone, e nemmeno all’opposto, quello di un Dio tappabuchi cui va tutto bene, tanto perdona sempre … e tanto meno è quel Dio feticcio in nome del quale si possa usare violenza e uccidere altre vite (ricordo dell’11-9-2001).

 

Ed è questo il secondo riferimento, cui accenno brevemente, che dobbiamo tenere presente per comprendere la pagina di oggi, ed è quando si parla del giudizio: Il Padre non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio.

Se noi leggiamo le parole di Gesù con una precomprensione forense e giuridica, diventano parole che inchiodano e non rialzerebbero mai più l’infermo dalla sua barella, ma ve lo legherebbero per sempre.

Ma Dio non pronuncia una sentenza di condanna contro nessuno.

 

Il giudizio del Figlio non è altro che il giudizio del Padre, ed è appunto un giudizio di vita e quindi di amore, di speranza. Un giudizio che ci sospinge a non adagiarci in un’immagine astratta di Dio, a non accontentarci della mediocrità della nostra vita, ma a continuare a nostra volta quell’attività che il Padre porta avanti sin dal primo istante della creazione, perché questo è il sogno di Dio: dare vita e superare ogni barriera di morte.

Il giudizio del Figlio è lo stimolo a far sì che la nostra vita e quelle delle persone che abbiamo intorno fiorisca, porti frutti ricchi di gusto e di sapore, proprio come ha fatto Gesù, anche laddove sembra che non ci sia altra possibilità.

 

Anche a noi Gesù chiede di continuare il lavoro e l’opera del Padre, così come lui ha fatto e continua a fare per noi, per renderci figli.