III DI PASQUA - Gv 14, 1-11a


Sono parole dense quelle del Vangelo di oggi, parole che Gesù ha pronunciato in un momento intimo e drammatico come quello dell’ultima cena, la sera del giovedì santo. Giuda è appena uscito dal cenacolo… c’è un clima strano, lo abbiamo appena rivissuto nel triduo pasquale: a cena quella sera sono tutti disorientati e non capiscono bene cosa stia succedendo, anzi forse lo hanno compreso fin troppo bene e per questo hanno paura.

Pietro a nome di tutti chiede: Signore dove vai? E Gesù: Vado a prepararvi un posto. Sono i primi versetti del vangelo di oggi in risposta alla domanda di Pietro. Anche Tommaso lo incalza: Ma se non sappiamo dove vai come possiamo conoscere la via? e poi ancora Filippo pone un’altra domanda: Mostraci il Padre e ci basta!

Ecco tre interrogativi che dicono lo stato d’animo di quella sera dei discepoli sconvolti, ma che dicono anche l’estrema solitudine di Gesù, quella solitudine che nasce quando non si è capiti, quando l’incertezza su quanto accade sconvolge i pensieri di chi ti sta intorno e porta a inondare il Signore di domande per cercare di capire, ma in realtà sembra che le risposte di Gesù non siano affatto di immediata comprensione.

Oggi, dopo la sua morte e risurrezione siamo in grado forse di comprenderle un poco di più, ma non dobbiamo dimenticare la condizione di quella sera.

Partirei da una costatazione amara, ma evidente. Per molti oggi ripetere le parole di Gesù: Io sono la Via, la Verità e la Vita, risulta essere abbastanza innocuo, scontato. Sono parole che appartengono a quel gergo religioso usurato che ha perso di mordente e di energia e sembra più una facile esortazione devota, per anime disincarnate e fuori dalla storia.

Quando un discepolo pensava alla via, pensava al lungo cammino compiuto dal popolo nel deserto per raggiungere la terra della promessa e da qui il termine via era applicato alla legge che era la strada sulla quale il buon israelita doveva camminare per essere fedele a Dio.

Gesù però inaugura un nuovo modo di camminare, il Vangelo è la nuova via, anzi il cristianesimo stesso come scrive il libro degli Atti non era considerata una nuova religione, una nuova chiesa, un nuovo culto… ma era chiamato «la via» e i suoi seguaci: quelli della via!

E mi piace pensare che questa fosse la risposta di Giovanni a quei greci che aveva di dinnanzi a sé mentre annunciava il vangelo della via, e che facevano riferimento a una metafora a loro più famigliare e sempre attuale, che era quella del labirinto del re Minosse di Creta costruito dal mitico architetto Dedalo per rinchiudervi il mostro del Minotauro. Il labirinto è una struttura, solitamente di vaste dimensioni, costruita in modo tale che risulti difficile una volta entrati, trovare l’uscita. Ma ricorda anche la conformazione del nostro cervello e dei misteriosi circuiti del pensiero.

E’ un’immagine che ancora oggi esprime il cammino della nostra umanità che sembra tante volte girare a vuoto, non avere una direzione, un orientamento. Siamo dentro un labirinto di idee, di tecnologia, di novità, di «eventi»… quanto va di moda partecipare a un «evento», ma il ripetersi sempre nuovo di eventi non è come girare da una stanza all’altra in un labirinto?

Ogni volta sembra di aver trovato la strada giusta, la risposta definitiva e invece è un inganno. Subito arriva la novità che soppianta la precedente, sempre più rinchiusi nelle gabbie dell’effimero e del superficiale.

Ecco il labirinto è il contrario della via, non perché non si cammini, ma perché pur camminando, anzi tante volte correndo e andando di corsa, non si arriva da nessuna parte, come a inseguire il mostro che in realtà ci abita!

In alcune chiese come nel duomo di Siena, in san Vitale a Ravenna e nella cattedrale di Chartres… in epoca medievale il labirinto venne riproposto come metafora del faticoso cammino dell’uomo verso Dio, simbolo del pellegrinaggio o di un cammino di espiazione: spesso veniva percorso durante la preghiera e sostituiva il pellegrinaggio per chi non poteva intraprendere un vero e proprio viaggio a Gerusalemme, ad esempio.

In realtà, seguendo il sentiero percorso da Gesù, che nulla toglie alla nostra ricerca, camminando per la via del Vangelo, veniamo introdotti alla verità della nostra vita, che è la seconda metafora quando Gesù dice «Io sono la verità».

Quella sulla verità era stata anche la domanda di Pilato rimasta in sospeso quando appunto chiese a se stesso e a Gesù: Che cos’è verità?

Ora dalla cultura egizia i contemporanei di Giovanni avevano imparato a personificare la verità nella figura della Sfinge che con un corpo da leone e un volto d’uomo – un volto impenetrabile – materializza l’enigmaticità fondamentale del mondo, della vita, della storia. Accovacciata su una rupe nei pressi della città di Tebe, divorava tutti i passanti che non sapevano dare risposta all’enigma che poneva loro: “Qual è l’animale che cammina con quattro gambe al mattino, con due a mezzogiorno e con tre la sera?”.

L’enigma è l’uomo, l’essere umano. Così diciamo di una persona impenetrabile, che non lascia trasparire nulla di quello che pensa o sente e che ha uno sguardo indecifrabile, misterioso, che è una sfinge!

Quando Gesù afferma di essere la verità, non pronuncia un principio astratto, come se volesse rispondere a un indovinello, con la sua morte e risurrezione manifesta la verità della vita umana. La verità della persona umana non è la sfinge, certo c’è una gran parte di enigmaticità nella nostra condizione, ed è anche la fatica che ciascuno di noi deve compiere, ma Gesù risorgendo, vincendo la morte, dischiude l’orizzonte e il senso del nostro andare e del nostro vivere che va oltre la morte, in una vita per sempre, quella che il Padre ha pensato per lui e per noi.

Ed è questa la terza parola di Gesù: «Io sono la vita». Diciamolo forte, gridiamolo sui tetti e sui social, negli sms e nei gruppi di WhatsApp… ai nostri figli e ai nostri bambini: vogliamo la vita, vogliamo che tutti possano avere una vita dignitosa e bella, perché cosa c’è di più religioso della vita umana?

Quando Giovanni annuncia il Vangelo, aveva assistito non solo alla crocifissione di Gesù, ma anche alla terribile fine di alcuni dei discepoli, ed egli stesso, inviato in esilio, aveva sperimentato l’oppressione dell’impero, così come noi oggi assistiamo a un mondo che continua a credere come Caino nel principio «mors tua vita mea».

Ieri come oggi ci sono i gendarmi del mondo che di qua e di là dall’atlantico decidono chi debba vivere e chi debba morire.

L’immagine che per contrasto mi suggerisce la parola di Gesù è appunto quella di Caino. Caino dà morte, uccide il fratello, perché ogni omicidio è un fratricidio, ci dice la parola di Dio. Caino continua oggi la sua cultura di morte costruendo armi, investendo denari, condizionando politiche e consacrando nuovi gendarmi, investendoli di una missione ipocrita.

La beffa oggi è che in pasto all’opinione pubblica vengono vendute motivazioni ridicole per giustificare e spiegare che se si bombarda lo si fa per il bene, per arginare lo strapotere dell’altro… ma solo laddove ci sono degli interessi di parte.

Vorremmo un’Unione Europea capace di fare da mediazione e in grado  di riportare al dialogo i gendarmi del mondo senza schierarsi dalla parte di alcuni di loro.

Vorremmo il nostro paese protagonista di pace, capace di mettere in atto il “ripudio della guerra” come recita la nostra Costituzione, non concedendo le basi per operazioni militari e per avviare una politica di pace nel Mediterraneo.

Vorrei che nessuno di noi si sentisse impotente. Ognuno di noi può fare la propria parte, con le campagne per il disarmo, con gli interventi civili di pace, con la diplomazia dal basso, con il sostegno a chi opera per la pace anche dentro ai conflitti, per dare voce a chi crede ancora nella fratellanza e nella nonviolenza. Ognuno di noi può fare la propria parte anche nel modo in cui si informa, nel linguaggio e nelle parole che si usano…

Disponibili e pronti a rivivere la percezione dell’essere soli, proprio come Gesù, nel credere che si possa arginare l’avanzare della violenza e dell’odio.  E doveva essere questa anche la percezione dei primi discepoli. Nella prima lettura abbiamo sentito di Paolo e Sila che hanno appena attraversato il Bosforo e sono arrivati a Filippi, prima città greca ed europea a ricevere il Vangelo e come risultato sono stati bastonati e imprigionati… eppure seguendo appunto Gesù come via, verità e vita, trasformano quella prigione in cui erano rinchiusi in una casa dove addirittura si finisce per apparecchiare la tavola e condividere la gioia della vita.

Che il Signore ci renda capaci di camminare sui passi di Gesù, di continuare la via.

(At 16,22-34; Gv 14, 1-11a)