IV DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 6, 24-35


audio 24 set 2023

La prima parola di oggi è stata un grido, il grido di Isaia: Signore se tu squarciassi i cieli e scendessi! Il profeta si rivolge a Dio con un ultimo e disperato appello di fronte all’indifferenza, alla paura e all’angoscia che affliggono il ritorno dall’esilio. Il terzo Isaia, profeta nella metà del V sec, si rende conto che il ritorno da Babilonia non è stato poi così facile come poteva sembrare. Da soli non ce la facciamo, Signore, scendi tu! Sembra gridare il profeta.

Questo grido mi ha fatto pensare al famoso quadro dell’artista norvegese, l’Urlo di Edvard Munch (1893). Una vita difficile e piena di dolore e di sofferenza quella dell’artista che un giorno prorompe in un grido che muove dalle profondità dell’anima, come racconta lui stesso: «Camminavo lungo la strada con due amici, quando il sole tramontò. I cieli diventarono improvvisamente rosso sangue e percepii un brivido di tristezza. Un dolore lancinante al petto. Mi fermai, mi appoggiai al parapetto, in preda a una stanchezza mortale. Lingue di fiamma come fiamme coprivano il fiordo neroblu e la città. I miei amici continuarono a camminare e io fui lasciato tremante di paura. E sentii un immenso urlo infinito attraversare la natura».

Solitudine, incomunicabilità, angoscia, semplicemente paura, paura del futuro, che coinvolge anche il creato e l’ambiente, ecco a questo urlo che fu di Schopenhauer, di Kierkegaard, di Kafka e di Freud… che è l’urlo della società, della terra e di tutta l’umanità, come fu di Isaia, non c’è risposta consolatoria, facile. Non è che Dio, che pure ascolta il nostro grido, scenda e risolva facilmente ogni cosa.

Dio scende, per dirla con le parole di Isaia, non come se lo sarebbe aspettato il profeta e con lui la sua gente, ma scende come pane, il pane di Dio è colui che scende dal cielo e dà la vita al mondo.

Gesù sta dicendo che c’è qualcosa che come il pane nutre la nostra vita fisica, anzi è qualcuno e non una cosa che ci nutre per la Vita che scriviamo con la maiuscola, perché noi non abbiamo i due termini che invece usa il greco del Vangelo: zoè e bios. In greco si dà la distinzione tra la Vita come zōé e la vita come bios.

Panikkar diceva che la vita come Zōé riempie tutto: le pietre, le piante, gli animali, i pensieri e le emozioni, le intuizioni spirituali più sublimi e Dio stesso. Diciamo la vita eterna, ma la intendiamo solo come qualcosa che viene dopo la morte. In realtà è la Vita in cui siamo immersi, che ci avvolge, che ci riempie di senso.

Ma alla quale diamo poca attenzione perché siamo più propensi a prenderci cura della vita intesa come bios, come biologia, intesa come dimensione concreta, fisica, individuale che prescinde da quella spirituale. È vero che la vita è biologia, e sappiamo quanto sia bella e affascinante… fino a quando non ci prende l’ansia, la paura, o quel dolore profondo che teniamo tante volte soffocato e che prima o poi esplode, per venire in superficie in forme talvolta sgraziate, talvolta impreviste.

All’ansia e alla paura non basta rispondere con il pane, con le cose, con le pastiglie… c’è in noi e nel mondo un dolore dell’anima che grida forte cui non possiamo rispondere con la chimica, riempiendoci di cose, ripiegandoci su di noi… Lo dico con una battuta: anche sulla confezione delle ostie per la celebrazione è scritta la scadenza! Perché la comunione, il mangiare quel frammento di pane santificato, se non diventa incontro con Cristo, se non diventa assimilare lui e fare nostro il suo essere in quel modo così diverso, così alternativo a ciò che la società, la mondanità ci domanda… allora rimaniamo ancora nell’ambito biologico, delle cose, della vita con la lettera minuscola.

Mi pare la grande sfida: fare di Cristo la nostra vita, il nostro modo di essere, ma non a parole – se ne sprecano sempre tante, troppe – bensì con le scelte che questo tempo esige da noi.

Nelle profonde disuguaglianze e ingiustizie che segnano il nostro mondo, in un’economia che arranca e che sta sempre più scavando il solco di separazione tra i ricchi e i poveri… diamo per scontato che gli esseri umani agiscano unicamente per massimizzare il proprio tornaconto economico e le relative scelte di consumo in modo ‘miopemente interessato’. Ma ci può essere un interesse non miope, ma lungimirante? Certamente se cerchiamo di pensare di coniugare profitto e impatto sociale e ambientale[1].

Non si tratta di immaginare un mondo dei sogni, ma di capire che uno può essere anche il miglior giocatore del mondo, eppure se scende in campo da solo perde tutte le partite. Perché il ben-vivere, la soddisfazione e la ricchezza di senso di vita non dipendono solo dal Prodotto interno lordo, ma da molti fattori come la qualità della vita di relazione, dall’ambiente inteso come contesto vivibile… da una razionalità sociale fatta di dono e che genera fiducia.

Il grido che sale dall’umanità è il grido di una Vita che non si può riempire solo di cose, ma di quel modo di vivere che è di Gesù, un modo di vivere che le nostre biografie sono chiamate a tradurre, come diceva papa Francesco a Marsiglia l’altro giorno: «Amici, anche davanti a noi si pone un bivio: da una parte la fraternità, che feconda di bene la comunità umana; dall’altra l’indifferenza, che insanguina il Mediterraneo. Ci troviamo di fronte a un bivio di civiltà. O la cultura dell’umanità e della fratellanza, o la cultura dell’indifferenza: che ognuno si arrangi come può» (22 settembre 2023).

(Is 63,19b-64,10; Gv 6,24-35)

[1] Cf. Il manifesto per la Nuova economia, consultabile qui: tinyurl.com/nueko)