XXVI DEL TEMPO ORDINARIO - Lc 16, 19-31
(Am 6, 1.4-7; Lc 16, 19-31)
Come vediamo in queste letture domenicali, Luca che si preoccupa di formare il discepolo secondo l’etica evangelica, è molto attento al povero, al miserabile e alla sua condizione che pone di frequente in contrapposizione a quella del ricco e del suo modo di fare e di essere.
La parabola che abbiamo ascoltato è particolare per tanti motivi, soprattutto per il suo svolgersi a metà in terra e a metà in cielo: anzi, è uno dei due soli testi del NT dove si vede qualcuno entrare nella beatitudine eterna dopo la morte. L’altro passo è quello del cosiddetto buon ladrone crocifisso con Gesù, al quale il Signore dice: Oggi con me sarai nel paradiso (23,43). Il buon ladrone e il povero Lazzaro sono due poveri disgraziati che hanno conosciuto la beatitudine dopo la morte.
Certo è diverso anche il morire di un ricco da quello di un povero: infatti del ricco si dice che venne sepolto, mentre non siamo sicuri che il povero Lazzaro ebbe una sepoltura, di sicuro non ebbe un mausoleo, infatti Luca annota che Lazzaro fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Se non gli uomini, almeno gli angeli si sono presi cura di lui. Ma per tutti arriva la morte, la “livella”, che irrompe nella vita di questi poveri, così come irrompe, ricorda Gesù, anche nella vita dei ricchi. Ed è proprio la morte ad essere la discriminante tra la situazione di Lazzaro prima e dopo.
Prima, il povero giace tutto ulcerato aspettando sulla porta della casa del ricco che cada qualche briciola da quella mensa sontuosa. È talmente malridotto che anche i cani – non dobbiamo immaginarli come gli amabili ospiti delle nostre case dallo sguardo tenero e dal pelo lucido, erano piuttosto animali sporchi e ripugnanti, costretti a frugare nella spazzatura, nei rifiuti -, ebbene anche quelle bestie vedendolo così conciato sembrano rinunciare a ogni loro aggressività e vengono a leccargli le piaghe, estremo gesto di pietà!
Dopo la morte invece lo vediamo accanto ad Abramo, letteralmente nel seno di Abramo, ovvero al posto d’onore del banchetto, accanto al capotavola. E ci potevamo aspettare a questo punto da parte del grande patriarca Abramo una requisitoria contro l’insaziabile dissolutezza del ricco che si dava ai banchetti, una ramanzina contro l’uso dei beni spregiudicato e sfacciato …
In realtà Abramo nei suoi due interventi, nelle parole che Gesù gli fa dire, sembra constatare semplicemente due cose.
La prima, rispondendo alla richiesta umanissima di quel ricco che vorrebbe avere almeno potersi bagnare la lingua, Abramo afferma: tra noi e voi è stato fissato un grande abisso. Chi l’ha fissato questo abisso? Non lo si capisce subito, ma è evidente che il ricco stesso l’ha scavato. Non perché sia un ricco cattivo, piuttosto perché è stato stolto, ignorando quel poveraccio, non lo ha voluto vedere, lo ha tenuto a distanza. Una distanza segnata dallo splendido look di alta società con cui è rivestito lui: porpora e lino sono uno status symbol adatto al tenore di una corte regale. Sono due mondi separati da un abisso.
Per cui le parole di Abramo non fanno che confermare quanto è sempre stato. Tra i due c’è sempre stato un abisso, un vuoto, una distanza che egli stesso ha coltivato. Il ricco non vede la sofferenza di Lazzaro non perché sia cattivo, ma perché la dolce vita in cui è immerso lo rende insensibile al bisogno del povero. La prima cosa dunque che ci insegna la parabola è che l’indifferenza ci cucina davvero a fuoco lento, è inesorabile: ci si abitua a tutto, anche ai poveri al punto che non li vediamo più, diventano invisibili.
Il problema è che come la ricchezza e la dolce vita hanno sprofondato il ricco in un baratro morale pauroso, di cui quasi non si rende conto, così anche per noi senza una sobrietà di vita è difficile, se non impossibile sentire il grido dei poveri. Non è forse vero che abbiamo sempre meno tempo da dedicare e da donare agli altri?
Non è questione di sentirci in colpa perchè abitiamo quella parte del mondo le cui tavole sono sempre ben apparecchiate e imbandite, il senso di colpa non sortisce quasi mai nulla di buono nella vita, se non la paralisi e l’incapacità ad agire. Occorre piuttosto un sussulto di responsabilità, quella responsabilità cui richiamano le parole antiche del profeta Amos: guai agli spensierati di Sion, cesserà l’orgia dei dissoluti! Il profeta non pronuncia una condanna fine a se stessa contro i ricchi e i dissoluti, ma sa vedere dove conduce questo loro atteggiamento: andranno in esilio in testa ai deportati, tutto il paese cammina con loro verso il baratro.
È questo sussulto di responsabilità che Abramo e Amos ci richiedono: riusciamo noi anche solo col pensiero a colmare la distanza abissale tra la nostra vita e quella di milioni di “Lazzari” nei paesi poveri del mondo? Quello che chiamiamo «terzo mondo» rappresenta in realtà i «due terzi del mondo», e sarebbe il caso di chiamarlo non «terzo mondo», ma «i due terzi del mondo».
Luca è provocatorio in tal senso perché chiamando il povero per nome e definendo l’uomo ricco per la sua condizione anonima, ci ricorda che da sempre è più facile conoscere bene i nomi dei ricchi e imparare ben presto i nomi di quelli che contano, perché invece i poveri sono più semplicemente considerati una massa anonima e informe di disperati senza importanza e da tenere a debita distanza. Cosa possiamo fare per costruire ponti, contatti, legami, attenzione? Come possiamo vincere nella nostra quotidianità quel fuoco lento che ci rende indifferenti?
Una seconda cosa dice Abramo al ricco della parabola e ai ricchi che siamo noi. La ricchezza oltre a renderci insensibili e indifferenti ai bisogni del prossimo e irresponsabili nei confronti del mondo e della storia, ci rende ottusi di fronte all’Eterno. Infatti all’incalzante richiesta del ricco che si preoccupa dei suoi fratelli, Abramo risponde: hanno già Mosè e i profeti, ascoltino loro! È sorprendente questo invito ad ascoltare la parola di Dio: hanno già Mosè e i profeti, ascoltino loro! Il ricco non è ateo: sa pregare e rivolgersi al cielo. La questione è che il suo cuore è incapace di ascoltare non solo il grido del povero, ma nemmeno la parola di Mosè e dei profeti e in definitiva non sa ascoltare nemmeno la sua anima.
Le mille cose che riempiono la giornata, i mille rumori della vita oscurano la nostra capacità d’ascolto della supplica delle nostre anime. Il problema è la sordità spirituale, dovuta alla ricchezza che indurisce il cuore e lo distoglie da quell’umiltà necessaria per un ascolto vero e credente. Che spazio può esserci per Dio in uno che ha il cuore, la vita e gli affetti ingolfati di cose?
Preghiamo perchè ci sia dato almeno di non continuare a scavare il grande abisso tra noi e i poveri, ma fedeli all’ascolto della parola di Dio, meditata e pregata giorno dopo giorno, non rimaniamo insensibili e indifferenti al grido del povero che sta alla porta accanto.