I DI AVVENTO - Lc 21, 5-28
Le parole di Gesù, misteriose e inquietanti, sono come un invito a guardare la storia umana a partire dal futuro, non tanto per improbabili previsioni, ma perché lasciamo emergere una domanda che non dovremmo mai smettere di farci, una domanda che ci aiuta ad avere la giusta prospettiva delle cose della vita, una domanda di responsabilità, vale a dire: cosa diranno di noi tra un secolo o due secoli? Quale traccia di umanità lasceremo nella memoria collettiva?
Il linguaggio apocalittico terrificante e spaventoso è un espediente per costringerci a pensare.
Piegati sotto le incombenze quotidiane, occupati nelle responsabilità e presi dai nostri progetti… questo linguaggio viene a scuoterci e a destabilizzarci perché abbiamo ad alzare lo sguardo e a sollevare il cuore.
Per il popolo di Israele al tempo di Gesù la religione era il collante sociale più determinante: poter ammirare il tempio come quello di Gerusalemme era fonte di sicurezza, di fiducia di fronte all’incertezza politica, economica, dinnanzi alla fragilità della vita. Era bello guardare al futuro pensandolo costruito sulla pietra fondamentale della religione.
Talmente era radicata questa convinzione che ogni tentativo di spodestarla equivaleva a una bestemmia. Infatti dopo l’accusa di voler essere il re dei Giudei, l’altro capo d’imputazione per Gesù fu proprio quello di aver detto di voler distruggere il tempio e ricostruirlo in tre giorni (Mt 26,61). Gesù di fronte al sinedrio non nega affatto di aver detto queste cose, sapeva bene che con queste parole aveva destabilizzato i suoi contemporanei. Distruggere il tempio, equivaleva a distruggere la religione, a confondere la gente, a disorientare i fedeli che ponevano la loro sicurezza su quel simbolo, su quel luogo.
Ma dobbiamo chiederci perché Gesù opera una simile destabilizzazione nei confronti del tempio e della religione in cui è cresciuto, in nome di che cosa? Per proporne un’altra? Una religione con più appeal, più moderna, più attraente? Capace di offrire rassicurazioni dalla fatica del vivere?
Gesù vede crollare il tempio non perché prevede che i romani di lì a qualche anno lo faranno davvero. Gesù non è un veggente, è un profeta e come tale dà voce alla sete che ci abita, alla sete infinita che sta nelle fibre del nostro vivere e per la quale non c’è santuario, né tempio che basti.
Non abbiamo bisogno di religioni, abbiamo bisogno di fede, ed è questo che Gesù suggerisce nella sua prospettiva profetica. Il profetismo non è una visione di futuro, ma una visione di liberazione per le persone che da sempre nei secoli rischiano di essere incatenate dalle paure, dalle divisioni, dalle ingiustizie e a volte dall’odio e che si sentono sempre più isolate e sole.
Per molti il rifiuto della religione è il rifiuto dell’asservimento ai riti, alle pratiche religiose perché non trovano in esse nessun beneficio, nessun vantaggio. Ma paradossalmente non per questo l’uomo contemporaneo ha meno paura, anzi, dobbiamo registrare che oggi la paura è pervasiva. C’è chi ha paura di perdere, paura di fallire, di non essere accettato, di non essere riconosciuto, di non essere amato… paura di dover rinunciare a un certo standard di vita, paura di perdere il nostro denaro, paura delle catastrofi, paura degli incidenti… paura degli altri, dei diversi, delle persone che non conosciamo.
Ed è su questa paura che molti demagoghi costruiscono il loro potere su di noi, oggi come ieri. Demagoghi politici, economici, informatici… alle cui mani, noi soggiogati dalla paura, consegniamo le nostre vite alla ricerca di quella sicurezza che in realtà nessuno può darci: non ci sarà regno, nazione, governo e nemmeno, ascoltiamo bene, nemmeno nell’ambito degli affetti potremo trovare la soddisfazione di quella sete di pienezza e di amore che ci abita, perché arriverà il giorno in cui tutte le nostre sicurezze svaniranno. Verrà il giorno in cui guai alle donne che sono incinte, dice Gesù, come a dire che nemmeno il dare seguito alla vita, alla discendenza aiuterà a vincere la paura che ci abita.
In questo scorrere del tempo abitato dalle nostre paure ecco che Il giorno del Signore arriva implacabile, afferma Isaia, è vicino il giorno del Signore. Ma tutti i giorni sono del Signore. C’è qualche giorno che forse non sia da lui? C’è forse un giorno che può essere esonerato dalla sua provvidenza? Certo che no. Però è vero che per ciascuno di noi c’è un giorno del Signore. Vale a dire un momento, un’occasione, un incontro in cui succede qualcosa di imponderabile, succede un clic, uno scatto, un cambiamento di prospettiva. “Allora” quello è il giorno del Signore in cui le cose si fanno più chiare, da quel momento vediamo tutto sotto un’altra luce e smettiamo di avere nemici e soprattutto di essere nemici a noi stessi.
È il giorno del Signore quello in cui crolla il tempio e con esso crolla un’immagine di Dio costruita sulla paura.
È il giorno del Signore quando smettiamo di consegnare le nostre vite nelle mani dei padroni di turno che ci governano sulla paura e ci insegnano il cinismo e la barbarie, per imparare a restare umani.
Ieri sera ero tra le numerose persone che ascoltavano il medico di Lampedusa Pietro Bartòlo e tra le immagini da lui proiettate in cui raccontava la sua esperienza di umanità nel soccorrere uomini, donne e bambini naufraghi sull’isola di Lampedusa, mi ha colpito quella in cui mostrava il sangue del cordone ombelicale di un bambino appena nato da una mamma nigeriana. Possiamo essere bianchi o neri, diceva, ma il sangue è rosso per tutti, siamo tutti fratelli e sorelle in umanità e nelle nostre vene scorre lo stesso sangue.
Ecco è il giorno del Signore quando sperimentiamo di essere liberati dalla paura, allora in quel giorno, Gesù ci dice: Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
In quel giorno sperimentiamo di essere liberati da Gesù dallo sguardo che si fissa sulla bellezza delle pietre e alziamo gli occhi e guardiamo oltre per riconoscere lo spirituale che ci abita e che soffochiamo di cose.
In quel giorno Gesù ci libera dalla paura e dalle paure che ci fanno consegnare le nostre vite nelle mani di demagoghi arroganti e presuntuosi, perché non ci lasciamo vincere dal cinismo e dall’indifferenza e guardiamo negli occhi il fratello, l’uomo, dono di Dio.
In quel giorno Gesù ci libera dalla paura di Dio, paura sulla quale si costruiscono le religioni e i templi, per restituirci alla libertà dei figli, dei figli amati e che riempiono il tempo che è loro dato di amore.
Quello è il giorno del “clic” in cui sapremo rispondere alla domanda con cui siamo partiti, vale a dire: che cosa diranno di noi tra qualche secolo? Vorremmo essere ricordati come quelli dei muri e delle chiusure? Vorremmo passare alla storia come quelli che per paura hanno fatto regredire la storia? Oppure come coloro che hanno fatto da levatrici per un futuro diverso e più umano?
Viviamo così questo inverno, come un tempo di gravidanza universale che culmina nella gravidanza di Maria che ha creduto che una sola cosa è vera: l’amore vince il tempo, di tutto il resto si muore.
Come scrive un poeta contemporaneo:
Anche le chiese,
le sinagoghe,
i templi e le moschee
si fanno male
e invecchiano.
(…) Passano i secoli
e nella loro ingenua presunzione
di custodire per sempre
il segreto della vita eterna,
queste case di Dio
sparse ovunque
sopravvivono solo grazie all’amore
di piccoli uomini mortali.
Che vivono brevi parentesi terrene,
ma che pure curano la cosa eterna
con devozione,
rimettono a posto tetti,
gradini, acquasantiere,
affreschi, panche e tappeti
e dimostrano che, di quel sermone
lungo molti mila anni,
una sola cosa è vera:
l’amore vince il tempo,
di tutto il resto
si muore.
(Andrea Melis, Chi si prende cura di Dio?)
(Is 13,4-11; Lc 21,5-28)