I DI AVVENTO - Mc 13, 1-27


(Is 24, 16b-23; 1 Cor 15, 22-28; Mc 13, 1-27)

Quando Marco scrive questo che è il più lungo discorso presente nel suo vangelo, gli apostoli hanno già vissuto alcuni dei disastri descritti da Gesù.

“Dis-astro” da intendersi in senso letterale: quando le stelle si mettono contro.

In quei giorni il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce … dice il Signore citando le parole che abbiamo letto nella prima lettura del profeta Isaia. Anzi letteralmente il profeta dice: arrossirà la candida (la luna) e impallidirà l’ardente (il sole).

Per i primi discepoli questo disastro è avvenuto nel momento in cui hanno visto il Cristo inchiodato sulla croce e con lui morire tutte le sue promesse di un regno di Dio sulla terra, infatti raccontano i vangeli che quel mezzogiorno il cielo si oscurò, si fece buio su tutta la terra!

Non solo, come se non bastasse, la seconda generazione dei cristiani ha visto un ennesimo disastro nel momento in cui, nel 70, Tito con le sue truppe distrusse il tempio, costruito 420 anni prima. Il crollo, pietra su pietra, di quel bellissimo capolavoro che era il tempio (alcune di quelle pietre potevano raggiungere 12 metri di lunghezza, 4 di altezza e 5 di larghezza) deve essere stato un vero e proprio disastro: la distruzione del simbolo per eccellenza del legame tra Dio e il suo popolo.

Crollando tale istituzione, non era solo un edificio a perire, ma era l’intera promessa di Dio ad essere messa in discussione. Ecco perché la domanda sul tempio introduce un discorso che ha a che fare con il futuro della storia e dell’umanità.

Le domande dei discepoli di allora, sono le nostre domande di fronte ai disastri che continuamente verifichiamo nella nostra vita. Dove va il mondo? Quale futuro ci attende? Che senso ha la storia umana? Ha una direzione o consiste nel succedersi confuso e caotico di eventi?

L’annuncio di Gesù, la proposta del vangelo che il tempo di avvento viene a ricordarci, consiste nell’introdurre in questa riflessione un modo nuovo di guardare tutto ciò che accade e soprattutto la direzione verso la quale andiamo. In questo la proposta cristiana si differenzia dalle visioni e dalle prospettive di allora e di oggi.

Il mito in definitiva raccontava di una storia in balìa dei capricci degli dei: la fortuna o la sfortuna, i favori o i disastri si giustificavano semplicemente con l’approvazione o meno delle divinità. Da qui la superstizione e i sensi di colpa.

Una visione di tipo naturalistico, che forse ancora oggi incontra un certo favore, tenta una spiegazione del senso della storia coltivando l’idea dell’eterno ritorno, del ciclico riproporsi di civiltà … la storia è come un rotolo che si avvolge su se stesso, che ripropone in definitiva gli stessi errori, le stesse vicende.

Oggi sembriamo essere accarezzati dall’idea di un modello evolutivo irrefrenabile, dove la storia è concepita come progresso continuo. Il mondo avanza, la natura seleziona i migliori e sopravvive chi se lo merita. Salvo poi essere clamorosamente smentiti dalle crisi (economiche e non solo) e dai disastri più o meno naturali che invece fanno parlare addirittura di recessione.

C’è un po’ di verità in ognuna di queste e di altre prospettive, ma nessuna riesce a darci una proposta che ci soddisfi. Non è qui il luogo per fare una sintesi delle filosofie della storia, ma il Vangelo propone una visione precisa, che affonda le sue radici nella letteratura biblica e che trova la chiave di volta nel Cristo. Gesù stesso dice ai suoi: un giorno tornerò, vedrete il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo. La storia avanza è vero, ma come in un movimento elicoidale, ha una direzione, una mèta, un traguardo: il Signore ha promesso di tornare. Sì, un giorno il Risorto tornerà.

Il tempo non è solo una successione di eventi, ma custodisce un fine, che è il compimento della promessa di Dio che in Cristo è già iniziata. Ma è difficile dire di più, perché ci rendiamo conto della povertà del nostro linguaggio.

Quando le raffigurazioni tradizionali di questi temi hanno tentato di andare oltre, non di rado hanno finito per sconfinare in immaginazioni fantasiose, quasi infantili. L’immaginario popolare si è fissato su una “geografia celeste” distribuita su tre piani: il cielo in alto, la terra in mezzo e l’inferno in basso, così da rendere evidente nella nostra mappa mentale il salire in cielo o lo sprofondare nell’inferno.

Questo bisogno di sapere, questa curiosità rischia di sconfinare anche nel ridicolo: non è mancato nel tempo chi, ironizzando sul contenuto di certi dibattiti, domandasse con finta ingenuità se le trombe del giudizio universale avrebbero suonato in si bemolle o quale sarebbe stata la temperatura del fuoco dell’inferno! Queste interpretazioni non sono più le nostre.

Il teologo K. Rahner ricordava che la fede non è un servizio informazioni sull’aldilà, è piuttosto un invito a vivere il futuro come attesa di una presenza del Risorto. Se rimaniamo al dato evangelico, se ascoltiamo quanto ci dice Paolo, i dolori della storia, i disastri che incontriamo nella nostra vita, sono come i dolori del parto. La storia è come un lungo e grande travaglio. Gli eventi che normalmente inducono l’uomo a scappare, a fuggire, sono in realtà i sintomi e i segnali di un processo di rinascita, che ci devono trovare svegli, attenti e pieni di speranza.

In questo senso possiamo dare ragione al poeta R. M. Rilke quando scrive che il futuro entra in noi molto prima che accada.

Nel senso che se siamo consapevoli di andare incontro al Risorto che viene, se la storia umana con le sue conquiste e i suoi disastri è in travaglio fino a quando, come scrive Paolo, Dio sia tutto in tutti, non è che noi di fronte a questo futuro abbiamo semplicemente l’atteggiamento dell’attesa, come se dovessimo aspettare il tram, ma a noi è chiesta un’attesa responsabile, operosa, proprio perché il futuro entra in noi molto prima che accada.

Provo a dirlo con un racconto. Un giorno uno studente domandò al rabbi come mai nella Scrittura si dice che Noè dopo aver ricevuto l’ordine di Dio non entrò subito nell’arca, ma attese che le acque del diluvio fossero vicine (cfr Gn 7,7). In fondo questo atteggiamento di Noè poteva apparire come una mancanza di fede. Infatti benché la parola di Dio gli avesse preannunciato la necessità di entrare nell’arca, egli attese che le acque lo incalzassero e solo allora vi entrò.

Rispose il maestro: «Vi sono due tipi di fede. Vi è la fede semplice che ascolta la parola e spera nel suo compimento. Ma c’è anche una fede che attira, ovvero la fede che contribuisce con la sua forza all’adempimento di ciò che deve accadere. Noè aveva paura di credere con tutto il suo cuore alla venuta del diluvio, per non accelerare questa venuta. E così credette e non credette, finché le acque non lo incalzarono».

Chiediamo al Signore il dono di una fede che ascolta la sua Parola, ma anche che sappia attirare il bene, la pace, la giustizia; una fede che attiri la sua venuta.