IV DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 6, 41-51


(1Re 19, 4-8; 1Cor 11, 23-26; Gv 6, 41-51)

Il vangelo di Giovanni ci racconta che Gesù in diverse occasioni per parlare di sé e della propria missione ha fatto ricorso ad alcune immagini e simboli che incontrava nella vita quotidiana del suo tempo: «Io sono la luce» (8, 12); «Io sono la porta» (10, 7.9); «Io sono il buon pastore» (10, 11.14); «Io sono la risurrezione» (11, 25); «Io sono la via» (14, 6); «Io sono la vite vera» (15, 1.5) … ma, in ordine di tempo, la prima di tutte è quella che abbiamo ascoltato oggi: Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Tutto il cap. 6 di Giovanni è costruito intorno a questa metafora del pane che attinge alla storia biblica, alla storia della manna nel deserto, ma non solo.

Per lungo tempo – e da qualche parte nel mondo ancora oggi – il pane è stato il principale alimento dell’uomo. Quello che si mangiava insieme era appunto il “companatico”.

Frutto della terra e del lavoro dell’uomo, sintesi di natura e di cultura, il pane ha una storia che si perde nella notte dei tempi, segnata ora dalle stagioni feconde, ora dalle carestie. Per il pane si sono combattute guerre e si sono accese rivolte fino ad oggi; per contro condividere il pane è segno di ospitalità e di amicizia, in alcune culture il pane non si può tagliare con il coltello, si può solo spezzare con le mani.

Tra l’altro la metafora del pane è entrata nel linguaggio quotidiano con diversi modi di dire ad indicare alcuni stati d’animo, modi di essere, situazioni di vita: «Essere buono come il pane; guadagnare il pane con il sudore della fronte; stare a pane e acqua; mangiare il pane delle lacrime; a chi ti colpisce con le pietre, rispondi con il pane …».

Ancora oggi il pane fa la differenza tra il mondo dei poveri e quello dei ricchi: i poveri ne domandano sempre di più, i ricchi vi devono rinunciare per la dieta. Al punto che risuona molto vero ciò che diceva Gandhi: «In un mondo dove ci sono tanti affamati, Dio può apparire solo nel segno del pane»!

Ebbene, quando Gesù pensa di condensare la sua vita, la sua persona, la sua missione nel segno del pane, evidentemente ha a cuore anche tutta la tradizione biblica che a partire da Mosè con il pane azzimo e poi via via attraverso Elia (prima lettura) e lungo tutta la storia, ha visto nel pane anche l’immagine di un nutrimento di senso, di gusto del vivere, come afferma nel passo di oggi: Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.

Dove Gesù identifica il pane con la sua carne. Un’espressione un po’ cruda e distante dalla nostra sensibilità, ma che possiamo comprendere se ricordiamo l’inizio del vangelo di Giovanni: Il Verbo si è fatto carne. Cioè il Logos è diventato uomo, si è fatto persona umana. Così possiamo allora rendere le parole di oggi: Il pane che io darò è la mia persona, il mio essere uomo per la vita del mondo.

Ma se noi guardiamo il nostro mondo ci viene da dire al Signore: la tua vita donata come il pane, Signore, non sembra essere accolta, anzi ogni giorno i segni di violenza e di morte sembrano prevalere. Celebriamo ogni giorno l’eucaristia, sacramento del pane spezzato, ma non sembra essere quel lievito che fermenta la storia del mondo, appare insignificante sul grande palcoscenico della cronaca… il tuo pane non sembra più dare gusto e sapore alla vita del mondo!

Eppure, se andiamo oltre una lettura immediata, vorrei farvi notare che se tutte le tre letture ci rimandano al tema del pane, è anche vero che si accompagnano ad altrettante situazioni difficili.

Osserviamo Elia – facciamo un salto nella storia intorno (IX sec a.C.) – che sta attraversando il momento più difficile della sua vita. Forse ricorderete del macello, è proprio questo il termine più adatto, che fece sul monte Carmelo di 400 profeti di Baal e di 450 profeti di Astarte che mangiavano alla tavola di Gezabele. La regina ovviamente non restò immobile a constatare la strage dei suoi profeti a pagamento, ma cominciò la caccia a Elia per eliminarlo. Infatti il profeta scappa, fugge e cerca rifugio nel deserto e lo vediamo oggi seduto sotto una ginestra, il fiore del deserto «sempre compagna di destini infelici» (cfr Leopardi) «Desideroso di morire disse: ora basta Signore! prendi la mia vita!».

Parole terribili per la Bibbia: Elia, come diciamo oggi con troppa facilità, è depresso, vorrebbe morire, non ha il coraggio di suicidarsi, e chiede al Signore di prendergli la vita. Eppure anche nella tristezza mortale del deserto il Signore non fa mancare l’angelo della speranza che prepara per il profeta una focaccia: alzati mangia perché è troppo lungo per te il cammino. L’angelo offre il pane e fa alzare lo sguardo sul cammino che ancora attende Elia. Il pane di Dio ti aiuta a vedere le cose diversamente.

Anche nella seconda lettura, Paolo nel famoso testo della prima ai cristiani di Corinto, ricorda la consegna di Gesù della sua vita nei segni del pane e del vino, consegna che avvenne nella notte in cui veniva tradito. Il dono del pane anche qui è collocato durante un’esperienza drammatica: quella del tradimento, esperienza che dilania e che ferisce profondamente le relazioni. Eppure l’eucaristia è il dono di Dio che ricuce e riconcilia, proprio nel cuore del tradimento.

A ben pensare potremmo dire che la Chiesa non ha vissuto crisi peggiore di quella di quei giorni: il maestro andava verso l’esecuzione capitale, uno l’ha venduto, il capo lo rinnega, tutti i discepoli svaniscono nel nulla, sotto la croce è rimasta sua madre con il più giovane… Il tradimento sembrava aver dato i suoi frutti! L’esperienza poteva risolversi in un nulla di fatto. Eppure anche in quel momento drammatico, il dono di Dio, il pane spezzato ha scardinato la logica secondo la quale leggiamo le cose e da quella crisi pazzesca, il dono di Dio continua a nutrire la nostra vita.

Infine anche nel capitolo 6 di Giovanni, il dono del pane di vita avviene in un contesto difficile e lo riconosciamo fin dalle prime battute del vangelo: i Giudei si misero a mormorare contro il Signore Gesù… In questa mormorazione possiamo leggervi la critica, il pregiudizio, l’ingiustizia tutte esperienze dolorose e dalle conseguenze incalcolabili. Eppure anche nella mormorazione il Cristo continua a tenere fede al dono di sé, al dono della sua vita. Non si dona in base al consenso che riceve, alla comprensione o alla gratificazione di chi gli sta intorno.

Quando spezziamo il pane della parola del Vangelo, quando spezziamo il pane santificato nella celebrazione della domenica non compiamo un gesto fuori dalla storia del mondo, ma è un segno che si colloca precisamente dentro le contraddizioni del vivere umano. Contraddizioni che oggi abbiamo raccolto intorno alla tristezza/depressione di Elia, al tradimento ricordatoci da Paolo o alla mormorazione/critica che ci è stata descritta da Giovanni e che sono il contesto oserei dire abituale della vita.

Ebbene come ci poniamo noi dentro queste contraddizioni? È qui che siamo posti di fronte alla scelta: o seguiamo la logica del mondo o facciamo nostra la logica del pane spezzato, del dono di Dio.

Ricordo a questo proposito la testimonianza di Annalena Tonelli, medico e volontaria laica in Somalia, assassinata il 5 ottobre 2003, così scriveva: «La vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile, che la mia religione non ha poi tanti comandamenti, ma ne ha uno solo, che non serve costruire cattedrali o moschee, né cerimonie, né pellegrinaggi, ma che quell’Eucaristia che scandalizza gli atei e le altre fedi, racchiude un messaggio rivoluzionario: questo è il mio corpo fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva, ma mangi la tua condanna».