PENTECOSTE - Gv 20, 19-23
(At 2, 1-11; 1Co 12, 3-7.12-13; Gv 20, 19-23)
Fin dall’inizio la Pentecoste è sempre stata la festa dei doni.
Fin da quando era semplicemente una festa agricola, la festa della mietitura: allora si offrivano le primizie dei sette prodotti del suolo quali il frumento, l’orzo, l’uva, i fichi, i melograni, le olive e il miele che veniva ricavato dai datteri delle palme.
Poi con l’esperienza dell’esodo, la Pentecoste è diventata la celebrazione di un altro dono, del dono per eccellenza per il popolo ebraico, il dono della Legge per mezzo di Mosé, il dono della Torah a suggello dell’alleanza conclusa sul Sinai.
Con Gesù il dono di Dio viene portato a compimento rendendo partecipi i discepoli del dono per eccellenza, quello dello stesso Spirito di Dio.
Tutti i modi in cui viene detto lo Spirito – “Ruah” in ebraico, è sostantivo femminile; “pneuma” in greco è neutro; “Spiritus” in latino è maschile -, sono comunque nomi comuni che rimandano al fenomeno naturale della respirazione.
Ebbene Gesù traduce questo dono dicendo: il Padre, attraverso di me, vi dona il suo stesso Spirito. E qui entriamo nell’indicibile, in ciò che appartiene all’Eterno, infatti, per rimanere ai testi biblici che abbiamo ascoltato, lo Spirito di Dio che attraverso Gesù ci viene donato, è descritto da Luca, da Paolo e da Giovanni in tempi diversi e con diverse immagini.
In Giovanni il dono avviene la sera stessa di Pasqua, per Luca negli Atti viene dato in pienezza cinquanta giorni dopo, per Paolo la Pentecoste è continua, è permanente ogni giorno nella Chiesa.
Negli Atti di Luca, la Pentecoste, il dono dello Spirito Santo è come un vento che viene dall’alto, ma anche come fuoco che rende il Vangelo accessibile a tutti.
Per Paolo è un dono che «fa corpo», che crea comunione nella diversità dei ministeri e carismi della comunità, perché siamo tutti battezzati in un solo Spirito.
Per Giovanni, nel vangelo, lo Spirito Santo perdona i peccati e proprio per questo porta la pace, lo shalom.
I testi ci dicono dunque più gli effetti dello Spirito Santo che non una sua definizione: è dato dall’alto, è qualcosa di sorgivo, di misterioso e di inafferrabile.
Anche i simboli con cui viene descritto lo Spirito e che appartengono al mondo della natura, quali l’acqua, il fuoco, l’aria e il vento … evocano l’irruzione di una presenza e ci ricordano più imperiosamente che Dio è Spirito, che Dio è mistero, non nel senso di un segreto accessibile a pochi, ma di una realtà che non si finisce mai di conoscere, di amare, di accogliere.
L’ Eterno non si possiede, non è un idolo che uno può tirare di qua e di là a proprio uso e consumo, magari anche contro gli altri.
Qual è il dono che chiederemo al Signore in questa festa di Pentecoste?
Quale domanda vera e sincera gli presentiamo nella preghiera di oggi, non solo per noi, ma per tutta la Chiesa e per tutta l’umanità?
Lasciandoci guidare dalla parola di Dio, potremmo chiedere anzitutto al Signore lo Spirito di coraggio, di quel vento che come nel Cenacolo, così irrompa nell’aria stantia di tante sagrestie e chiese per suscitare uomini e donne giusti.
I valori che tutti proclamiamo come grandi e assoluti esistono e prendono forma solo se ci sono uomini coraggiosi che li vivono.
Che cos’è la giustizia senza uomini e donne giusti? Che cos’è la libertà senza uomini e donne capaci di uscire dal cenacolo per servire il Vangelo?
Su una Chiesa stanca e priva di slanci, su una Chiesa cui sembra paradossalmente “mancare il respiro” perché troppo sulla difensiva e paurosa, invochiamo lo Spirito del coraggio, della parresia evangelica che non si appoggia alle alleanze e alle sicurezze mondane, ma si fida e si affida all’Eterno.
Dio ci manda nel mondo anche se pochi e poveri, umiliati e poco appariscenti, nella ferma fiducia che non c’è realtà umana che sia insensibile alla forza di amore di Dio che ha creato l’uomo e che fin dall’inizio gli ha dato lo Spirito.
Lo Spirito è il dono di Dio, è la forza dinamica che ci aiuta a riportare il vero senso della realtà che è l’amore. Se il cristiano si lascia guidare dalla paura, dalla tristezza e dallo sconforto, fosse anche lo sconforto per i propri peccati, senza continuare a credere nella forza della risurrezione di Cristo, è schiavo di se stesso.
Ogni volta che Dio prende il posto del nostro io, si avvera la presenza dello Spirito santo d’amore in Cristo, con Cristo e per Cristo.
C’è un secondo dono dello Spirito che mi sembra necessario per noi oggi e che ci viene dalle parole di Paolo: A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune.
Ecco mi sembrerebbe questa la vera scommessa su cui giocare oggi: se c’è una scommessa sulla quale come discepoli possiamo puntare è quella che l’Eterno ci ha pensati ognuno con un dono del suo Spirito per il bene comune.
La nostra società è contagiata dalla sfida del gioco, è malata dall’atteggiamento di chi scommette per guadagnare in fretta, per avere più disponibilità economica, e forse per qualcuno potrebbe essere anche un modo per vincere l’ansia dell’incertezza e della precarietà lavorativa.
Ma non è questo un atteggiamento disperato e in definitiva incredulo?
Prima ancora di qualificarlo moralmente, prima ancora di dire se sia o meno peccato – e anche se oggi è considerato del tutto normale e socialmente approvato -, questo modo di arricchirsi è la via breve per ricacciare indietro la paura del futuro, del domani perché in definitiva non siamo sufficientemente capaci di sentirci amati da quel Padre che fa sorgere il sole sui buoni e sui malvagi, dal quel Dio misericordioso che ci custodisce nelle sue mani.
In realtà, distraendoci con questi idoli che occupano la parte carnale di noi, ci chiudiamo al dono dello Spirito che abita in noi e che ci rende capaci di donarci per il bene comune.
“L’idolatria – scriveva Mazzolari – è vestire l’effimero di assoluto”.
Ma vivendo così, oltre a chiuderci e ad avvitarci su noi stessi, diventiamo sempre più disperati e tristi.
Invochiamo lo Spirito su ciascuno di noi e sulla nostra Chiesa perché ci renda consapevoli del dono che l’Eterno ha dato a ciascuno di noi per il bene comune.