VI DOPO PENTECOSTE - Mt 11, 27-30
Potessimo dire anche noi, come chiesa, come comunità dei discepoli di Gesù, le stesse parole che lui rivolge ai suoi contemporanei quando li vede stanchi e oppressi: venite a me.
Purtroppo invece sono più numerose le persone che abbandonano la chiesa di quelle che la cercano. E questo potrebbe scoraggiarci e demoralizzarci, quando invece viene una lezione salutare anche da quelle tristezze, da quegli scandali e da tutte le contro testimonianze che allontanano le persone, perché anche attraverso le nostre debolezze il Signore ci ricorda che è a lui che si deve andare, non a noi, è lui che offre ristoro, pace, è lui, non noi.
Il Signore alla sua generazione non offre un’altra religione, un’altra morale, un’altra ideologia, un’altra organizzazione… A chi è stanco perché conosce già come vanno le cose del mondo, a chi è oppresso dagli obblighi e dalle regole… dice: Venite a me. Non a una religione dell’oppressione, dei pesi che nemmeno chi li definisce sa portare, non la morale del dover essere e del dover fare…. Venite a me, il mio è un carico leggero.
Eppure Gesù non ha cancellato nemmeno un apostrofo della Torah, non ha tolto i comandamenti, non ha fondato una nuova religione. Certo le circostanze storiche, a partire dall’espulsione dei cristiani dalla sinagoga (Jamnia, fine I sec.), hanno favorito il progressivo strutturarsi di ciò che originariamente e inizialmente poteva essere ricondotto a un movimento riformatore all’interno del giudaismo.
Ora si tratta di capire cosa intenda il Signore quando afferma che il suo giogo è dolce e leggero. Il giogo di Gesù è leggero quanto il peso di un Vangelo. L’immagine ha del paradossale perché per un verso Gesù libera ed è un liberatore dal gravame di mille e mille regole e precetti, ma al tempo stesso offre un giogo che è il Vangelo.
Chi non ha sperimentato talvolta la fede come un peso o una catena, opprimente sotto il regime della paura, del senso di colpa? Ma qui si tratta di discernere quale fede, perché un criterio tanto autentico quanto moderno di autenticità della fede, vale a dire un criterio per riconoscere se la nostra fede è la fede di Gesù o altro, è di vedere se libera dal faraone. Se è una fede che libera dall’Egitto, se è una fede che libera dalla schiavitù.
Gesù nella sua vita, nei suoi incontri con le persone, nelle sue parole non ha fatto che liberare e alleggerire il carico che gravava sulle coscienze delle persone.
Pensiamo a Maria di Magdala: era schiava e oppressa da mille paure (i sette demoni che la assediavano), dai sensi di colpa e dall’ansia di non essere gradita a Dio. L’incontro con Gesù ha fatto quello che il Tempio e la Legge non riuscivano a fare: l’ha resa libera e l’ha fatta fiorire capace di amore fino a renderla apostola degli apostoli.
Ricordiamo Matteo: una persona che faceva gravitare la propria vita intorno al denaro, la sua testa e il suo cuore erano sempre lì. Abile nel calcolare i margini di guadagno, astuto nell’imbrogliare gli altri. A un certo punto Gesù irrompe nella sua vita e Matteo si alza dal bancone delle imposte e si mette a seguirlo. Una liberazione che né i farisei né i sadducei avevano previsto, anzi secondo loro era destinato a vivere così, sarebbe morto più o meno ricco ma segnato da questa schiavitù.
E invece quale liberazione! Entrambi Maria di Magdala e Matteo una volta liberati sono rimasti soggiogati dalla bellezza del Vangelo.
Perché il nostro Dio è un Dio che ci vuole liberi, a partire dalla storia di Mosè. Cosa volete che Mosè non sia stato affascinato dall’idea di stare al roveto? Mosè poteva pensare di costruire un santuario, una qualche struttura religiosa, non vi pare? Ne aveva tutti i motivi: in un posto dove c’è un roveto che arde senza consumarsi e su un terreno dove viene rivelato il nome di Dio… come non pensare di realizzare un santuario, di costruire un centro per i pellegrini, fare un shop center con gadget e ricordini?
E sarà quello che la gente cerca nel deserto costruendosi un vitello d’oro, perché questo aveva imparato in Egitto. Vogliamo essere soggiogati, l’essere umano cerca un padrone, e nonostante sia abitato anche dall’impulso all’indipendenza e all’autonomia, non riesce a bastare a sé stesso.
Nella Bibbia ebraica il libro dell’Esodo prende il titolo dalle prime parole del libro: Questi sono i nomi (שמות, shemòt). L’esodo è un libro di nomi, ma dire Questi sono i nomi è in qualche modo voler definire anche il suo contenuto. Anzitutto perché Dio rivela il suo Nome ineffabile, ma anche perché ci sono i nomi di coloro che vengono liberati. Gli schiavi non hanno un nome, lo hanno soltanto gli uomini liberi.
Nella Bibbia non esiste il termine libertà. L’idea di libertà è una scoperta laica della democrazia greca. La Bibbia se deve dire che qualcuno è libero, dice che è “figlio di…”. L’uomo libero è il “figlio di”, che sembra un paradosso, ma esprime una realtà profonda: nessuno di noi è indipendente in modo assoluto, ha sempre una relazione che lo tiene in piedi e per la quale vive.
Tant’è che essere liberati dalla schiavitù del faraone significa entrare al servizio di un Dio così, che c’è, che è fedele, che ha compassione, che ama.
Mosè non è un fenomeno e quello che racconta non è per niente “fantastico” nel senso letterale delle cose. Siamo ricondotti sul piano della realtà della vita e siamo invitati dall’esperienza di Mosè ad abitare le nostre contraddizioni senza costruirci vitelli d’oro per evadere in un mondo falsamente consolatorio, tranquillo, pacifico, che è in definitiva alienato.
No, abitiamo una storia che di pacifico non ha nulla, proprio nulla. E guai a noi se la fede, la spiritualità, la preghiera fossero l’occasione e lo strumento che ci rende alieni dalle nostre responsabilità. Anzi, Mosè insegna che la fede in Dio aiuta a vedere la realtà, a comprendere quello che accade e ad agire, prendendo iniziativa. Sono tre cose che lui stesso ha imparato da Dio: vedere, giudicare, agire.
Anzitutto, dice il Signore, Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido. Secondo: conosco le sue sofferenze. In terzo luogo: sono sceso a liberarlo dal potere dell’Egitto.
Vedere, giudicare, agire. Vedere, discernere, decidersi. Questo è il metodo spirituale, il discernimento nella fede. Il Signore, l’Eterno vede e ascolta il grido che sale da quei disperati che erano schiavi e oppressi. Comprende e discerne la loro dura condizione dandole il nome: schiavitù… e di conseguenza cerca qualcuno con cui liberare quella povera gente.
Noi sappiamo vedere? Sappiamo ascoltare? Vediamo e ascoltiamo il grido dei disperati della terra? Ascoltiamo l’urlo che grida dignità dai campi dei braccianti? Le grida che salgono dalle acque del mar Mediterraneo? Ascoltiamo o voltiamo la faccia dall’altra parte?
Il v.7 è di grande attualità, dice Dio: ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti. È il grido che sale dal carcere di s. Maria Capua Vetere, è il grido che sale dalle carceri di mezzo mondo… Le violenze e le aggressioni che vengono commesse dagli agenti della polizia penitenziaria non riguardano solo i detenuti, riguardano noi, il rispetto e la dignità delle persone. Ora se Dio ascolta il loro grido, cosa faremo noi?
Quante volte la nostra religiosità è diventata una schiavitù, quasi un narcotico per la coscienza al punto da disancorarla dalla realtà, una coscienza incapace di vedere, di giudicare e inabile anche ad agire.
Succede quando al fuoco della Parola sostituiamo le nostre pratiche religiose…. In fondo anche in Egitto c’era una religiosità, una visione religiosa delle cose, ma strumentale al dominio del potente di turno, così che gli egiziani stessi erano schiavi.
E noi al servizio di chi siamo? E soprattutto da che parte stiamo? Dalla parte del faraone di turno, del denaro e della morte o al servizio del Vangelo, dell’amore e della vita?
Oggi, come sempre, non mancano i faraoni, mancano piuttosto persone come Mosè, uomini e donne dal cuore in fiamme, mancano persone come Gesù che sappiano vedere la stanchezza e l’oppressione delle persone e che si offrano come strumento di liberazione.
Potessimo essere una chiesa non troppo preoccupata di sé stessa, ma che ha a cuore la stanchezza e la fatica di chi è oppresso dalla colpa, dalla disperazione, dal non senso e non perché abbia chissà quale soluzione da offrire, ma semplicemente perché offre il dolce peso del Vangelo.
(Es 3,1-15; Mt 11, 27-30)