PENULTIMA DOPO L’EPIFANIA detta "della divina clemenza" - Mc 2, 13-17


Ci dona consolazione questa parola di Gesù e ci permette di avvertire il caldo affetto di Dio che si china su di noi, ci abbraccia nella sua misericordia perché il Dio di Gesù non è il Dio dei giusti che si meritano il premio, ma è il Dio dei peccatori proprio perché il Signore sa che non sono i forti ad avere bisogno del medico, ma coloro che stanno male.

Per dire che la misericordia di Dio non è un concetto astratto, il vangelo di Marco ci racconta la chiamata ad essere discepolo, di un certo Levi figlio di Alfeo, è lo stesso discepolo che il vangelo di Matteo e di Luca ci hanno insegnato a chiamare Matteo.

Levi è un pubblicano, cioè un pubblico peccatore, uno di cui tutti conoscono la condotta disonesta al punto che da uno come lui non si poteva ricevere nemmeno un dono o un’elemosina perché quello era denaro che proveniva da un furto legalizzato, non solo, ma il pentimento di personaggi come lui, secondo alcuni maestri in Israele, era quasi impossibile, se non addirittura del tutto impossibile.

Eppure Gesù non solo siede a tavola con i pubblicani, ma chiede a uno di loro di seguirlo come discepolo. Se solo avesse visto il suo curriculum! Invece lo chiama senza nemmeno chiedergli di dare prova di sé, delle sue abilità e capacità …

Gesù chiama Levi Matteo senza bandire un “concorso per discepoli”, un concorso lo vince chi è più meritevole, ma lo chiama di sua iniziativa, gratuitamente, lo avvolge della sua grandezza di cuore, con una misericordia che fa germogliare in quell’uomo una prospettiva nuova, un modo nuovo di guardare alla vita, proprio a lui che era abituato a guardare se stesso e gli altri nell’ottica del guadagno e del denaro.

Gesù poteva chiamare anche qualcun altro tra coloro che erano seduti al banco delle imposte, perché proprio Matteo Levi?

È come se ci domandassimo: Perché noi? Perché io, tu, lei … noi che siamo qui e non magari un nostro collega, un amico? perché invece non chiama un nostro figlio o una nostra figlia?

In principio c’è l’assoluta e libera iniziativa di Dio. Il discepolo non sceglie il maestro: il discepolo è chiamato, è scelto. Ma non perché è più bravo degli altri, o perché ha i numeri e le capacità, perché ha una vita più santa … è chiamato. Punto.

Basta una parola: seguimi. Stai dietro a me. Questo fa la differenza tra la figura del discepolo e gli uomini religiosi di ogni tempo: l’uomo religioso e la donna religiosa fanno delle cose per Dio, si preoccupano di accumulare meriti davanti all’Eterno, cercano di comprarsi la sua benevolenza, così facevano allora gli scribi e i farisei … ed erano più preoccupati delle loro organizzazioni che del regno di Dio, più preoccupati delle loro strutture che della misericordia, del loro potere più che della volontà di Dio.

Chiamando Levi il Signore non gli domanda di diventare un uomo religioso e praticante: il Signore non cerca schiavi tristi e infelici che fanno pratiche religiose noiose per lui, ci chiama ad essere discepoli.

Ma chi è il discepolo? Possiamo definirlo in qualche modo? Possiamo tratteggiarne un profilo?

In primo luogo sgombriamo il campo dall’equivoco per cui l’essere discepolo si identifica automaticamente in un qualche ruolo ecclesiale, in un qualche compito: troppe volte questi ruoli finiscono per smarrire il loro punto di partenza e diventano fine a se stessi, funzionali non al regno di Dio, ma ai propri sensi di colpa, alla propria carriera, alle strutture …

Quando incontriamo certe rigidità, certe durezze, certi giudizi anche da parte di uomini di Chiesa, domandiamoci: ma che si siano dimenticati di essere stati chiamati dalla misericordia di Dio?

In secondo luogo dobbiamo anche liberare il nostro immaginario dall’idealismo, per cui abbiamo in mente alcune figure sulle quali abbiamo proiettato le nostre aspirazioni e così ci raffiguriamo che il nostro modello di discepolo sia magari san Francesco, Madre Teresa di Calcutta … modelli di grande forza e santità, ma indubbiamente irripetibili e irraggiungibili.

Il vangelo, in questo come negli altri passi in cui Gesù chiama qualcuno, non dà mai una definizione di discepolo, non c’è un modello per i preti, uno per le donne, un altro per i giovani … che è come costruire delle gabbie entro le quali devo costringere la mia vita, come se per essere cristiano io debba indossare il vestito di quel santo piuttosto che quell’altro! La cosa che Cristo chiede al discepolo è di entrare in relazione con lui. L’identità del discepolo è nella relazione con Gesù.

Questo è un cambiamento mentale importante. Culturalmente significa ciò che dicevano molti filosofi del personalismo o della filosofia dialogica come Lévinas e Buber, che l’identità è nella relazione. Mi conosco, mi realizzo nell’incontro col volto dell’altro che mi restituisce la mia identità.

Quale relazione stabilisce con Gesù Matteo Levi? Non dice nulla a parole, ma nei fatti alzandosi e mettendosi a seguire il Cristo, afferma: “il centro non sono io. Io mi realizzo, io sono, mettendomi dietro a te”. Quando diciamo che il discepolo segue Gesù, diciamo che ubbidisce, per cui uno non dà più alla propria vita i contorni che vuole.

Alzandosi e seguendo il Cristo il discepolo decide di prendere i contorni, di prendere la forma della vita di Gesù. I miracoli di Gesù, le parole di Gesù, il comportamento di Gesù, l’amore di Gesù, l’abbandono di Gesù alla volontà del Padre … sono il riferimento per la vita del discepolo.

Il discepolo è uno per il quale il riferimento assoluto è Cristo.

La relazione con lui è una luce che si proietta su tutti gli aspetti della vita, della storia, delle cose. In lui si collocano i criteri e i giudizi di comportamento. In lui si comprende tutto e nessuno e niente rimane fuori: salute e malattia, successo e insuccesso, ricchezza e povertà … tutto.

La croce più vera del cristiano consiste nell’essere discepolo così, per cui tutto il resto è relativizzato. Non nel senso che le cose non interessano più per cui uno raggiunge un’apatia e un distacco che rasenta il disinteresse, ma nel senso che le cose senza questo riferimento al Cristo sono vuote, sono nulla.

Non c’è svalutazione di niente, è solo lo spazio di una libertà: io sono più grande di tutte le cose, perché non posso essere in nessuna di esse, perché posso essere soltanto in Gesù Cristo. Non si svaluta niente, soltanto si ha fortemente il senso di dove sta in definitiva l’uomo.

Questo stare dietro a Gesù, dobbiamo riconoscerlo, non è mai lineare, non è un tragitto sempre chiaro e pulito, ben definito: basti guardare il cammino dei discepoli nel Vangelo. Come loro anche noi abbiamo bisogno del Signore che con tutta la sua misericordia torni a dirci: seguimi.

Si, Signore, noi siamo malati di egocentrismo, di protagonismo, non siamo buoni, siamo capaci di grandi slanci, ma anche di ferire e di fare del male: è come se subissimo il fascino di tornare a sederci al banco delle imposte!

Preghiamo insieme in questa eucaristia perché il Signore ci doni di riprendere il cammino del discepolo, di rialzarci, caso mai ne avessimo bisogno dal banco delle nostre imposte al quale eravamo tornati volentieri, per rimetterci dietro a lui, consapevoli con Paolo che Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io.