V DOPO PENTECOSTE - Gv 12, 35-50


È sempre intrigante tornare a riascoltare la storia di Abramo. Non per guardare a lui come si guarda un modello e invidiarne la grande fede e misurare appunto la fragilità della nostra… ma per cogliere qualcosa di noi che vediamo in lui, carpire ciò che della sua esperienza di vita appartiene anche a noi (Gen 17,1-16).

Cosa c’entra Abramo con noi? A me sembra che alcuni passaggi indicati dalla parola di Dio di oggi ci riguardino.

  1. Il primo è il nome con cui Abramo riconosce Dio: Io sono Dio

l’Onnipotente, dice il primo versetto, e per noi il carattere di onnipotenza ha un significato ben preciso di forza, di vittoria, ci trasmette l’idea di un Dio un poco guerriero! In ebraico il termine suona El Shaddaj che si traduce «il Dio della montagna», forse «il Dio della steppa»… C’è un’interpretazione rabbinica curiosa (filologicamente inattendibile, ma istruttiva) che distinguendo le due parole she-daj  (lett. «che basta») ci fa intendere il nome con cui Abramo fa l’esperienza di Dio, El shaddaj , come un «Dio che basta»[1]. Abramo non aveva bisogno neppure di sapere il nome di Dio: tanto intensa e tanto personale era la comunione con lui che per lui era sufficiente, gli bastava sapere che ci fosse.

Il nome è ancor più significativo perché quando Abramo fa questa esperienza di Dio, in realtà le promesse della terra e della discendenza numerosa come le stelle del cielo… sono ben al di là dall’essere realizzate.

La lettura ha omesso il versetto iniziale che recita così: Quando Abram aveva novantanove anni il Signore apparve ad Abram…. Novantanove anni è una cifra che racconta di un Abram che ormai non si aspetta più nulla dalla vita: se a novantanove anni non possiedi nessuna terra e continui ad andare migrante più o meno clandestino; se la discendenza che doveva essere numerosa come le stelle è praticamente l’unico figlio che hai avuto dalla schiava …  ormai potremmo dire i giochi sono fatti!

Eppure Abramo non smette di fidarsi di Dio. Qualcun altro si sarebbe messo a bestemmiare perché non aveva ottenuto quello che gli era stato promesso… invece Abramo credette a Dio, dice Paolo nella lettera ai Romani (4,3-12). Perché Dio gli basta, gli basta che ci sia, gli è sufficiente sapere che la sua vita non è un girare a vuoto, che anche se ci sono tante cose che non capisce oggi, però è fiducioso che nulla è indifferente a Dio. Nemmeno  l’amore tenerissimo che lo lega a Sara è indifferente a Dio. E allora lui fa le sue cose di ogni giorno, guida le greggi, monta e rimonta le tende, migrante di terra in terra alla ricerca di pascoli per vivere lui e le sue bestie… con quella fede che gli permette di averlo come «il Dio che basta».

Proviamo a pensare se noi dovessimo dire con un nome la nostra esperienza di Dio? se noi dovessimo raccontare ai nostri figli e nipoti di Dio, cosa racconteremmo loro? Non bastano anni e corsi di catechismo per trasmettere la fede. Delle ore di catechismo ci si dimentica, ma un’esperienza di vita lascia un segno indelebile, ti permette di chiamare Dio per nome e quando chiami uno per nome è perché non è anonimo, ma vivi una relazione, un rapporto personale.

  1. La cosa sorprendente è quando all’alba dei novantanove anni di Abramo Dio si ripresenta e rilancia la promessa, l’alleanza: Guarda che diventerai padre di una moltitudine, ti renderò numeroso… e cosa fa Abramo? È il v.17: Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: A uno di cento anni può nascere un figlio? La promessa è tanto grandiosa da suscitare in Abramo un moto di riso. Sara non sarà da meno, anche lei sorriderà.

In diversi testi di Genesi appare tutta l’ambiguità del riso umano, espresso con un ampio ventaglio semantico, che indica ora il riso, o il sorriso, ma anche il gioco, lo scherzo…

È straordinaria questa umanità di Abramo e di Sara, la loro fede li porta a fidarsi di Dio, un Dio che basta, ma al tempo stesso con sano realismo si mettono a sorridere.

E cosa fa Dio? Non è permaloso, non se la prende, non ritiene che questo sorriso sia irriverente o mancanza di fede, non si indispettisce, anzi Dio stesso sorride: infatti a Sara e ad Abramo nascerà un figlio che appunto si chiamerà Isacco, Yshaq che significa «egli sorride». L’amicizia divina permette di trasformare quello che poteva essere inteso come un sorriso di scherno e di ironia, in un sorriso di sorpresa, di stupore!

È un Dio simpatico quello della fede di Abramo, non è il Dio accigliato, bigotto e triste, ma è un Dio che sa anche sorridere e l’occasione gliela offrono l’uomo e la donna quando nella loro intelligenza pensano di sapere come vanno le cose e così, quando si rendono conto che l’età avanza e la promessa non si vede, di comune accordo decidono di avere un figlio dalla schiava Agar (cap.16)!

E cos’è questo atteggiamento? una mancanza di fede? Un tentativo di dare una mano a Dio che forse si era distratto? Oggi diremmo che Abramo «prende un utero in affitto», che è un modo tutto umano di affrontare le cose della vita. E Dio sorride con loro. Abramo e Sara fanno così l’esperienza di un Dio che non molla, ma che ripropone la sua alleanza, la sua amicizia nonostante i sotterfugi e gli stratagemmi che nella loro intelligenza gli umani sanno inventare.

In questo rinnovo dell’amicizia però Dio pone in essere due gesti, due segni concreti che suggellano questa alleanza, talmente evidenti che sarà impossibile dimenticare: il cambiamento del nome e la circoncisione.

  1. Anzitutto Abramo e Sara cambiano il nome. Ed è interessante perché nel momento in cui impari a dare un nome a Dio, anche il tunome cambia. Cambia in maniera simbolica perché di fatto c’è una dilatazione del nome: Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo… in pratica al nome si aggiunge in ebraico solo una «h», questo crea un’assonanza che sfugge all’italiano (ʾab hamôn), ma l’ampliamento del nome di Abramo sta a significare che egli non sarà soltanto il padre di un clan… ma padre di una moltitudine di popoli!

Così anche Sarài cambia il nome, anche lei riceve una «h» in più e non sarà più solo «principessa», ma sarà «madre di re». Il cambiamento del nome, segna una tappa importante del cammino di questa coppia di credenti: così che quando si chiameranno l’un l’altra per nome si ricorderanno che nel loro nome è scritta la fedeltà di Dio. La loro vita non è più solo la loro, ma Dio è coinvolto nel loro destino. L’esperienza di Dio cambia il tuo destino.

  1. E poi c’è la circoncisione. Abramo non inventa nulla, era ed è ancora una pratica diffusa di iniziazione e di igiene, ma a partire da questa pagina della Genesi la circoncisione diventerà il segno dell’alleanza abramitica. La circoncisione è un patto con Dio iscritto nella carne, un segno permanente. Ogni ebreo viene circonciso sia esso praticante o meno, osservante del sabato o no.

Ma proprio quando questo segno diventa simbolo di arroganza, e addirittura di pretesa di fronte a Dio, i profeti si alzano a dire: «Ma circoncidete il cuore!» (Geremia).

Ed è questo il richiamo di Gesù che nel vangelo di Giovanni (12,35-50) rivolge alle persone religiose che lo seguono, perché il pericolo di ogni esperienza di fede, di ogni spiritualità è quella di dimenticarsi dell’umanità, dell’essere umani, e di ridursi a uno strumento di controllo, di potere, di violenza. Gesù fa proprie le parole dei profeti: è duro il loro cuore, non vedono con gli occhi, non comprendono col cuore (v.40)!

Proprio a partire da queste parole potremmo rileggere la storia di Gesù attraverso la vita e gli atteggiamenti di Abramo, per renderci conto che

  1. Gesù è il nome del Dio «che basta», nel suo amore c’è l’alleanza nuova e definitiva, per tutti gli uomini e le donne e non solo per qualcuno.
  2. Anche se i vangeli non ci dicono mai di un sorriso di Gesù… Mi piace pensare che Gesù sia il sorriso di Dio anche sui nostri sotterfugi e le nostre macchinazioni. Non è difficile pensare quante volte avrà sorriso, lui che conosce bene cosa c’è nel cuore, che conosce l’austera ipocrisia dei devoti e l’intima presunzione di apparire giusti davanti agli altri.
  3. Allora ripensiamo anche al nostro nome, a quel nome che i nostri genitori hanno scelto per noi nel giorno del Battesimo, quel nome con cui veniamo identificati, chiamati, invitati… è un nome nel quale anche Dio si coinvolge. Ma soprattutto a quel nome di cristiani nel quale è scritto il nostro futuro, resi partecipi del destino di Cristo.
  4. Infine, come per Abramo e i suoi discendenti c’è stata la circoncisione a ricordare la loro appartenenza al popolo dell’alleanza, chiediamo oggi al Dio «che basta» di continuare a circoncidere il nostro cuore, il cuore di uomini e di donne con la parola e la vita di Gesù.

[1] Rashi scrive: «Io sono El Shaddaj. Io sono Colui la cui potenza divina è sufficiente ad ogni creatura».