VIII DOPO PENTECOSTE - Mt 22, 15-22
C’è una domanda che attraversa la parola di Dio nelle pagine di oggi.
Samuele ci racconta delle tribù di Israele che vogliono darsi un re come fanno gli altri popoli. Come se non bastasse l’alleanza con Dio, dice il profeta! Questa gente, dice Samuele che «deviavano dietro il guadagno, accettavano regali e stravolgevano il diritto», ovvero soldi, corruzione e, secondo il neologismo di papa Francesco, inequità, pensa di risolvere i loro problemi dandosi un re!
Ma anche i contemporanei di Gesù hanno questa aspettativa: quando i due partiti di opposizione vanno insieme a interrogare Gesù e sono i farisei e gli erodiani, due partiti che avevano posizioni politiche diametralmente opposte. I farisei non tolleravano l’occupazione romana, anche se non arrivavano come gli zeloti ad organizzare attentati. Gli erodiani invece stavano, come dice il nome stesso, dalla parte di Erode, un re fantoccio messo lì appunto dai romani e quindi erano sostenitori di Cesare.
Ecco la loro domanda: «È lecito pagare il tributo a Cesare?» che non è da intendersi: «Si devono pagare le tasse?», perché il tributo in questione non è il fisco romano, ma era il census ovvero la moneta che ogni cittadino dai 12 ai 65 anni doveva versare a Cesare, riconoscendolo come sovrano assoluto, padrone e signore, infatti sulla moneta c’era l’immagine di Tiberio e l’iscrizione latina “Tiberio Cesare figlio del divino Augusto”.
La domanda suona dunque come una provocazione per vedere cosa pensa Gesù della discussione più accesa in quegli anni: È Cesare il nostro re o dobbiamo lottare per darcene un altro?
La fede, lo abbiamo visto in queste domeniche, è fatta di preghiera, di ascolto della Parola, di discernimento. Ma la fede, pare ovvio, la viviamo sulla terra e insieme agli altri. Abitiamo un Paese, viviamo insieme credenti e non credenti o appartenenti ad altre religioni… come coniugare i valori della fede, il senso spirituale della vita, l’anelito trascendente che tutti ci portiamo dentro con la vita politica, con l’esercizio dei diritti e dei doveri civili di una nazione, della libertà di un Paese, della convivenza con altre religioni?
È un tema attualissimo se pensiamo al confronto con il fondamentalismo islamico, un fondamentalismo che vorrebbe uno stato costruito e normato dalla legge religiosa, cosa per noi aberrante, dopo che abbiamo ottenuto non senza fatica la separazione dei due ambiti, l’autonomia dello stato civile dalla religione e dal suo apparato.
Se osserviamo la storia, se andiamo a ripercorrere come lungo il corso dei secoli chi ci ha preceduto ha vissuto e ha risposto alla domanda, non incontriamo risposte sempre univoche e uguali.
Se pensiamo agli anni di Ambrogio e di Agostino (IV-V secolo) secoli che segnano la fine di un’epoca, un po’ come per noi, sono gli anni del cosiddetto Basso Impero che secondo gli storici costituisce il primo degli Stati totalitari di tipo moderno: il sovrano, avvolto di prestigio religioso è onnipotente, governa per mezzo di un apparato burocratico militarizzato e gerarchizzato, con una fiscalità schiacciante, capace di una giustizia feroce, irrigidito in caste ereditarie… In questo contesto i cristiani hanno realizzato un doppio atteggiamento: alcuni fuggivano il mondo, per darsi meglio e del tutto a Dio. Ne è esempio emblematico il monaco stilita, raccolto tutto solo in cima a un colonna, come ad emergere anche fisicamente dalla massa per salire verso Dio.
Altri invece, come Ambrogio e Agostino, pur rimanendo dentro una struttura imperiale poliziesca, si sono attivati per realizzare opere di misericordia, di civiltà, di libertà quasi a svolgere una supplenza umana e civile in nome del Vangelo: nella difesa dei poveri e dei più fragili, nell’esigere rispetto e tolleranza…
Potremmo definirlo con Italo Mancini, il cristianesimo della presenza, un modo di essere presenti in un contesto storico e politico avverso, con la testimonianza della cura per i bisogni dell’uomo. Nei secoli appunto si costruirono scuole, ospedali, università…
Poi c’è un altro modo di rispondere alla sfida del vivere la fede nel mondo, lo chiamiamo il cristianesimo della mediazione. Ne abbiamo una eco nelle parole di Paolo che chiede a Timoteo di pregare perché le autorità politiche e militari permettano ai cristiani di condurre un “vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”.
Potremmo dire che è il cristianesimo che fa della mediazione politica, giuridica e sociale la chiave di lettura della propria missione, in vista di ottenere un accordo col potere di turno per garantirsi una certa libertà. Potremmo leggere così ad esempio la storia delle chiese ortodosse sotto i regimi dell’est che pur di sopravvivere hanno cercato mediazioni che hanno permesso di attraversare grosse persecuzioni. Ma è anche l’esperienza dei concordati, dei trattati stato-chiesa che intendono garantire la libertà religiosa, il diritto di culto, grazie alla formalizzazione dei rapporti con l’autorità.
Questa è una conquista importante, anche se nella storia la Chiesa in genere ha cercato questa libertà per se stessa e non anche per tutte le altre confessioni o religioni.
Infine il vangelo ci delinea un altro modo di stare in rapporto alle vicende della storia, delle leggi, della politica, potremmo dire un terzo tipo di cristianesimo, un cristianesimo del paradosso nel senso che non persegue l’obiettivo né di darsi un Cesare cattolico e tantomeno quello di portare a casa un qualche vantaggio, una qualche legge coerente con le proprie convinzioni… ma di tenere alto il messaggio evangelico, di annunciare un vangelo sine glossa, di stare nella società come Francesco d’Assisi, o come tanti cristiani irrequieti che lungo la storia hanno acceso fuochi di speranza, non senza distanza critica o ribelle di fronte all’istituzione e spesso inghiottiti dalle onde del perbenismo accomodante o dalla furia delle persecuzioni.
E mi sembra fotografare bene la nostra situazione oggi, ovvero quella di un cristianesimo dilaniato tra due prospettive che semplificando potremmo dire di cattolici che vogliono ispirarsi al Vangelo e di cattolici “del campanile”, la cui prima preoccupazione è la tradizione, l’identità cattolica localista.
Non è una novità, scrive Enzo Bianchi, nella storia della nostra Chiesa. «Non si può infatti dimenticare che Mussolini, uno dei tanti timonieri invocati e venerati dagli italiani, diceva con orgoglio: ”Io sono cattolico e anticristiano!”».
«Nei prossimi anni questa frattura crescerà sempre di più e, come sempre, chi vorrà seguire solo il Vangelo sarà perdente, mentre la religione troverà nuovi assetti mondani» (Enzo Bianchi).
Infatti è tipico della religione aggrapparsi a un apparato esterno per poter reggere e presentarsi al mondo. Un po’ come accade in natura per i molluschi. Com’è noto, i molluschi non sono dotati di uno scheletro interno. Il loro corpo molle e i loro organi sono racchiusi e sostenuti da una struttura esterna, più o meno rigida, che funge da protezione e da supporto, l’esoscheletro.
Così ci sono persone o gruppi che cercano nella religione – nelle sue istituzioni, nelle sue dottrine, nelle sue norme, nei suoi potenti simboli e nei suoi rituali – una struttura esterna che sia capace di tenere in piedi e di schermire l’inconsistenza della loro interiorità.
Nei fenomeni del tradizionalismo, dell’integralismo e dello spiritualismo, la fede diventa così un vero e proprio esoscheletro che a volte degenera in una micidiale arma di offesa violenta, come le cronache non smettono di registrare.
Non pensiamo soltanto all’Islam, che pure è così tragicamente all’ordine del giorno. Anche un certo numero di cattolici vive l’esperienza cristiana come un esoscheletro cui appoggiarsi e di cui servirsi per coprire la propria inconsistenza.
Nulla è più lontano dal Vangelo di Gesù che intendere il rapporto credente con Dio come una corazza che nasconda la propria mollezza e la propria paura di fronte alla realtà.
Preghiamo insieme perché possiamo rendere a Dio quello che è di Dio, tenendo alta la parola del Vangelo senza appoggiarci alle strutture mondane ed essere, come scriveva Martini «Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo … Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Una Chiesa giovane».
(1Sam 8, 1-22; 1Tm 2, 1-8; Mt 22, 15-22)