II DI PASQUA - In albis depositis - Gv 20, 19-31


audio 16 apr 2023

Sono due i pensieri che la pagina di vangelo mi suggerisce: il primo viene dalle parole che Gesù risorto rivolge ai discepoli. Parole del tutto inattese: Gesù offre la pace, lo Spirito e il perdono. Prende una posizione scioccante che è l’esito del mistero della Pasqua: Dio non si vendica.

Le palme delle sue mani si aprono all’abbraccio, quando ci sarebbe potuti aspettare, non dico una qualche forma di vendetta, perché non è da Gesù, ma almeno un bel rimbrotto o una lavata di capo.

Il suo fianco squarciato che aveva tutti i motivi per reclamare una qualche forma di giustizia e di resa dei conti con coloro che lo avevano abbandonato, mostra un cuore trafitto ma non indurito, anzi in grado di offrire l’inaudito, appunto la pace, il perdono, lo Spirito.

Vorrà ben dire qualcosa per questo mondo che si arma ogni giorno di più, che non si vergogna di uccidere la vita umana per biechi interessi ed egoismi economici, il fatto che il Risorto come prima cosa doni la pace, il perdono e lo Spirito.

Ci vorranno tutti e cinquanta giorni –ovviamente una cifra simbolica- per dire la necessità che il processo di riconciliazione venga accolto dalla comunità e venga interiorizzato dalle discepole e dai discepoli. La pace è un dono, lo Spirito è un dono… ma ci vuole un processo graduale affinché possiamo accoglierli.

È questo avviene non solo a livello individuale, proviamo a riflettere su quanto ad esempio hanno fatto le chiese dell’est che hanno vissuto il passaggio al post comunismo: quante hanno fatto ad esempio l’esperienza del processo di riconciliazione nazionale che è avvenuto in Sudafrica dopo l’abolizione dell’apartheid, grazie a Mandela e a Desmond Tutu? Le chiese dell’est non hanno costruito processi di perdono e di riconciliazione, non si sono presentate esperte di quei processi faticosi che non si possono affrontare semplicemente ricacciando le colpe nell’oblio e nell’ignoranza. Le chiese di quei paesi non avendo trovato il coraggio di affrontare prima di tutto il collaborazionismo tra le proprie file e di togliere la trave dal proprio occhio, hanno cominciato a perdere credibilità e autorevolezza per dedicarsi alla cura delle cicatrici fresche della loro società.

Basta osservare il rapido collasso in corso della potente chiesa polacca innescato proprio dall’infelice alleanza tra politici nazionalisti e la maggioranza conservatrice della gerarchia: in pochi anni “sono riusciti a nuocere alla Chiesa molto più di quanto sia riuscito a fare nel corso di alcuni decenni il governo comunista che poteva contare su tutti gli strumenti di potere”[1].

Accogliere la pace, il perdono e lo Spirito richiede per noi tutti un processo di riconciliazione con il nostro vissuto e il nostro passato.

E poi, secondo pensiero, a me Tommaso piace da morire, è un apostolo che mi risulta più simpatico di altri. Più di Giuda ovviamente, ma anche più di Pietro perché lui è il primo, il capo; ma anche più di Giovanni che è il preferito… Tommaso invece lo sento più vicino a me.

Ma non perché l’abbiamo ingabbiato nello stereotipo del non credente, anzi, direi che oggi è di lui che abbiamo più bisogno, del suo coraggio, sì, del suo coraggio. L’apostolo più coraggioso è lui. Perché Tommaso non si accontenta di una fede riportata: ‘Siamo amici quanto volete, lo abbiamo seguito insieme in questi anni – sembra dire – ma se non tocco, se non vedo, non crederò’. Mette a repentaglio la sua fede per poterne avere una più grande. Non vuole semplicemente vivere di esperienze altrui. Non si accontenta di ripetere quello che gli altri dicono sulla fede. La questione di Dio è talmente importante che non si può credere solo per sentito dire.

Non è coraggio questo? È il contrario di quello che fa la maggioranza delle persone che si accontenta di credere quello che altri dicono di credere. Il coraggio di Tommaso è proprio quello di chi rischia anche di diventare un non credente pur di avere una fede personale, pur di avere un’esperienza in cui sia lui a rispondere e non semplicemente per quello che gli altri gli dicono.

Tommaso, l’uomo del dubbio, in realtà è l’uomo del coraggio, proprio da lui e proprio dalla sua bocca, dal suo cuore, dopo che Gesù ha onorato in fondo il suo dubbio, esce una professione di fede che è tra le più belle in assoluto non solo nel vangelo di Giovanni, ma in tutto il nuovo testamento: Mio Signore e mio Dio!

Giunge a dare a Gesù il nome stesso di Dio. A questo punto non gli interessa nemmeno più toccare e mettere il dito nelle ferite, gli basta la parola di Gesù. È una professione di fede estremamente importante, perché significa non più soltanto il Signore del gruppo, dei miei compagni, il Dio della tradizione, ma ora io posso dire che tu sei il Signore mio, il Dio mio, perché sei diventato esperienza, realtà, vita della mia vita.

Fino a qualche tempo fa bastava essere italiani per essere, o per pensare di essere, cristiani. Ormai non basta più. Fino a quando la fede è solo un’eredità che ricevi, cosa che può anche avere un suo valore, in ultima analisi però è quella di altri, non è veramente la tua. E così succede che alla prima scossa, al primo problema, alla prima delusione… tutto crolla.

Anche se Gesù dicendo: Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto, mi sembra che in qualche modo relativizzi l’esperienza di Tommaso. Noi siamo sotto questa beatitudine perché Gesù non afferma: beato te che hai visto, che hai potuto vedere, infelici invece quelli che credono senza aver visto. Gesù dice esattamente il contrario. Che è uno dei paradossi del cristianesimo: non si crede perché si vede, ma proprio in ciò che non si vede. Perché la fede viene dalla Parola, la fede viene dall’ascolto. Si può credere in Cristo senza averlo visto, ma non senza averlo incontrato.

Ecco il senso finale della parola di Gesù: dove lo si incontra? Nella sua Parola. La festa di Pasqua è una festa che è un incontro, non è una tradizione, ma è l’ascolto della parola, come è accaduto a Maria di Magdala, quando ha ascoltato il suo nome, come è accaduto a Tommaso, Perché credendo abbiate la vita nel suo nome.

(Gv 20,19-31)

[1] Tomas Halik, Pomeriggio del cristianesimo p.84