VII DOPO PENTECOSTE - Gv 16, 33 - 17, 3


audio 11 luglio 2021

“È una battaglia continua” tante volte siamo ricorsi a questo modo di dire per descrivere una condizione che non ci abbandona mai: la vita ci fa conoscere rari e preziosi momenti di pace e di tranquillità, ma per lo più è fatica, lotta, battaglia appunto!

Per qualcuno sarà la lotta contro le ingiustizie che gli tocca subire, per altri sarà il combattere un male che insidia la salute, per altri ancora si tratterà di fare i conti con le rivalità nel mondo del lavoro, ma anche degli affetti…

Tra l’altro anche nelle nostre case viviamo numerose lotte quotidiane a partire da quelle con i nostri difetti, i nostri caratteri, per non pensare a quelle con i figli adolescenti… insomma è proprio vero che la nostra vita è una battaglia continua.

Perché ricorriamo alla metafora bellica per descrivere situazioni che potremmo anche cercare di dire altrimenti?

In fondo è una semplificazione appagante: è istintivo e facile vedere in ciò che si oppone alla nostra realizzazione, vedere negli ostacoli che si frappongono ai nostri piani e progetti un nemico e non semplicemente un avversario che si può superare e contro il quale si può trattare, ma un nemico da eliminare perché è qualcuno o qualcosa che ha un interesse a metterci in difficoltà, qualcosa o qualcuno che, per dirla con i latini, pone la radicale alternativa: mors tua vita mea.

Ora trovo nella parola di Dio che abbiamo ascoltato un aiuto a leggere questa condizione che ci accomuna tutti per farci intravvedere una strada diversa, per aprirci a un linguaggio altro.

In realtà la strada percorsa da Giosuè è la strada della violenza, è la strada di sempre: la guerra è contro un nemico da sterminare, da uccidere perché se non c’è lui, c’è posto per me.

È la logica della guerra che da sempre appare l’unica via in grado di dare una svolta ai conflitti. Non solo Giosuè si circonda di prodi guerrieri per conquistare la terra della promessa, ma dice anche che Dio sta dalla sua parte. E come dargli torto quando i chicchi di grandine grandi come pietre, fanno strage di nemici?

Da Giosuè in poi basterebbe pensare a quante guerre abbiamo fatto noi cristiani gli uni contro gli altri tirando in ballo il nome di Dio, quando in realtà si celavano ben altri interessi. Fino ad arrivare ai giorni nostri, negli ultimi decenni il terrorismo islamico non ci ha forse quasi sospinto a una guerra di religione?

Ma la violenza sembra farla da padrona ovunque: abbiamo appena ricordato le violenze al G8 di Genova di vent’anni fa, che dobbiamo registrare le violenze inaudite nelle carceri italiane. E poi come dimenticare le violenze che si perpetrano in Libia dove si tortura, si uccide, si rendono schiave le persone… con i finanziamenti nostri e dell’Europa. Dal 2017 Roma ha speso 784 milioni di euro e Bruxelles altri 400… e questo è il risultato?

Ma davvero la strada della violenza è invincibile? Gesù stesso avrebbe avuto tutto il diritto di invocare un esercito dal cielo, avrebbe potuto, come affermò lui stesso nel processo, chiedere al Padre di inviare legioni di angeli che avrebbero fatto impallidire le tronfie legioni romane! Quella sì è la gloria: vincere, umiliare, sterminare il nemico, l’avversario. Questo è quello che credono di fare i Sommi sacerdoti, i capi del popolo, gli anziani eliminando Gesù.

Ma ci vuole più coraggio a combattere e a fare la guerra, o più coraggio nel credere in Gesù che dice: io ho vinto il mondo!

Ci vuole coraggio a credere che Gesù abbia vinto il mondo, ovvero la logica mondana del peccato e dell’odio, perché è evidente che Gesù non ha cancellato l’egoismo, l’individualismo, il male con la forza, perché ancora comandano la storia.

Ci vuole quel coraggio che tanto ci manca, che tanto è assente anche nel cuore degli stessi discepoli del Signore per fidarci della sua parola.

E ora se vogliamo fidarci di lui si aprono davanti a noi due strade necessarie: anzitutto dobbiamo imparare a controllare la violenza interiore, le fantasie violente che ci attraversano la mente e il cuore, perché giungere alla convinzione intellettuale che la non violenza sia la miglior forma di lotta sociale è diverso dal diventare non violento nel profondo di noi stessi.

Infatti non sarà ancora una volta con la forza che otteniamo anche il nostro cambiamento interiore: non possiamo migliorarci soltanto stringendo i denti, ma imparando a fidarci di Cristo. Come ebbe a dire una poetessa contemporanea: di guerrieri indifesi ha bisogno il mondo! La sfida che dobbiamo affrontare oggi è quella di non cancellare del tutto la mentalità del guerriero, ma di riconoscerla e onorarla, e canalizzare la sua energia nelle lotte contro le vere minacce alla vita: la fame, la distruzione dell’ambiente, il razzismo, l’avidità economica…

Distinguiamo la non violenza evangelica dal pacifismo. Gesù è lontano dalla violenza tanto quanto è lontano dalla passività. Il suo modo di fare è proprio quello di chi combatte il male senza rifletterlo, affronta l’oppressore senza imitarlo e pone in essere una terza via, tra la violenza e la passività.

Gesù col suo atteggiamento ci insegna a non trasformarci in ciò che si odia. La corsa agli armamenti è un esempio perfetto di questo meccanismo. Ci sentivamo minacciati dai sovietici e abbiamo incrementato i nostri arsenali. A loro volta i sovietici si sono sentiti minacciati e questo li ha spinti ad aumentare e a potenziare la loro produzione di armi.

Cambiano i nomi dei nemici, ma la logica rimane la stessa. La non violenza di Gesù disarma i cuori e le menti, affrontando (ecco la vera lotta) i fantasmi e gli istinti che ci abitano. Per anni la non violenza è stata a torto bollata come esangue, vigliacca e priva di passione, quando in realtà il Vangelo esige che noi siamo capaci di rabbia, energia, passione e una tenacia di ferro per essere non violenti.

Gesù non vuole fare della nonviolenza una nuova legge da imporre con la forza, ma una nuova possibile scelta. Racconta un antropologo che partecipando a una cerimonia di iniziazione in Amazzonia, si sentì dire dallo sciamano: La cosa più importante è che non devi avere paura. Se vedi qualcosa di terrificante, non scappare: corrigli incontro e toccalo.

Perché la violenza ha come casa la paura: la paura del pericolo, della sofferenza, dell’imprevisto… è guardando in faccia la paura che Paolo può scrivere nella lettera ai Romani quell’interrogativo che non ha niente di retorico perché è audace e coraggioso: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, il pericolo, la nudità, la spada?

Il nostro punto fermo, la nostra appartenenza è a Gesù e al suo modo di essere. Per questo la seconda strada è quella della preghiera. Gesù affrontando la passione e una morte di una violenza inaudita, compie un gesto che appare di una inutilità disarmante, appunto: si rivolge al Padre.

Cos’è questo? È il bisogno estremo di aggrapparci con l’ultimo filo di respiro all’Eterno? Ma non solo: quando Gesù ci fa dono della sua preghiera, le frasi del Padrenostro non sono all’indicativo, ma al congiuntivo esortativo: è come se volessimo ingiungere a Dio di realizzare il suo regno. Quando preghiamo la stessa preghiera di Gesù che Dio ci liberi dal male, diciamo che il futuro si farà presente. Con la preghiera dischiudiamo un futuro per la storia che sembra intrappolata dentro le logiche violente e bellicose che la seducono.

Il Vangelo non dà spiegazioni al male, all’origine del male… eppure questo tema ha impegnato menti tra le più acute della storia, perché Gesù ha aperto la via per vincerlo, per sconfiggerlo e non per spiegarlo. Pregare significa imparare a credere nella trasformazione dell’io e del mondo, quando queste sembrano empiricamente impossibili. L’incredulità proviene dalla disperazione di chi è schiacciato dal pensiero che niente possa cambiare davvero.

La fede in Cristo ci dona fiducia, speranza, creatività per affrettare un mondo che non sia dominato dalla violenza e dal dominio. E per credere in questo ci vuole coraggio, quello che Gesù chiede ai discepoli e che chiede oggi anche a noi.

(Gs 10,6-15; Rm 8, 31b-39; Gv 16,33-17,3)