III DOPO L’EPIFANIA - Mt 15, 32-38


C’è un certo contrasto tra l’atteggiamento di Mosè, così come lo racconta il libro dei Numeri, e quello di Gesù. Potremmo dire che la situazione di partenza è analoga per entrambi: la gente che li segue ha bisogno di mangiare. La gente che ha attraversato il deserto, sia con Mosè che con Gesù, è affamata.

Ma se Mosè su comando di Dio agisce da bravo stratega ed è rigoroso nel dare gli ordini ai suoi esploratori: «Osserverete che terra sia, che popolo la abiti se forte o debole, come sia la regione, come siano le città, come sia il terreno», per poi concludere: «Siate coraggiosi e prendete i frutti del luogo» (vv. 18-20).

Gesù che pure sembra condividere quella compassione che fu di Mosè di fronte alla fame della sua gente, non offre però un strategia esplorativa tesa a cercare un terreno, un magazzino, o anche semplicemente un contadino con cui trattare una qualche disponibilità di cibo… Gesù domanda: ma cosa abbiamo? Già questo dice il diverso approccio perché parte dal poco che c’è: sette pani e pochi pesci. E in questo è davvero coraggioso.

Non voglio mettere in contrapposizione i due modi di affrontare il problema che sia Mosè  che Gesù incontrano, ma se Mosè segue per così  dire una via ragionevole, comprensibile, logica, Gesù in realtà col suo modo di fare ci costringe a pensare diversamente.

La strategia di Mosè, cioè di chi cerca altri terreni, altra terra per la sua gente, non accade senza una qualche forma di violenza, di conquista e di guerra…. Si tratta di occupare la terra di altri, come l’umanità continua a fare da sempre,  così  fa il più forte, il più  armato, colui che possiede più tecnologia di altri…

Analogamente Gesù sulla scia di Mosè poteva, se non proprio lui, mandare almeno qualcuno dei suoi a occupare un terreno, invadere una vigna, svuotare un magazzino… Oppure come ipotizzava il racconto della prima delle moltiplicazioni dei pani, scegliere la strada più semplice ed efficace come quella di sciogliere il raduno e lasciare che ognuno si arrangiasse in qualche modo.

Il Signore non sceglie nessuna di queste possibilità, ma ne indica un’altra, quella della condivisione. Gesù chiede di condividere il poco che uno possiede con gli altri. Quello che io ho in definitiva non mi appartiene, la terra è di Dio e io col mio lavoro e la mia intelligenza contribuisco a dare continuità alla creazione che è pensata e voluta da Dio per dare cibo a tutti.

Il contrario della condivisione è  l’accumulo, il pensare per sé,  la bramosia dell’avere, l’avarizia…

Dobbiamo chiederci cosa significhi per noi oggi condividere, per me, per la mia famiglia, la mia impresa, la mia azienda. Ha fatto notizia l’imprenditore che qualche settimana fa ha voluto dividere gli utili tra tutti i suoi dipendenti. Un autentico miracolo. C’è bisogno che continuino ad accadere miracoli di giustizia, quella giustizia che fa della condivisione il criterio di verità perché la terra è di Dio e noi non ci portiamo via proprio nulla da qui – ce lo diciamo spesso – eppure, mi diceva un amico avvocato di assistere ad un incremento continuo di cause in tribunale tra fratelli e sorelle per la spartizione dei beni.

Non è una difficoltà solo dei nostri tempi. Paolo scrivendo ai ricchi cristiani di Corinto dice: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza, né per forza, perché  Dio ama chi dona con gioia» (v.7).

Paolo sta parlando a dei cristiani che stanno bene e che non sembrano però generosi con le comunità più povere e in difficoltà economiche come quella di Gerusalemme… E allora ricorda ai Corinti la comunità della Macedonia,  una comunità molto più  povera che però non ha fatto mancare il suo contributo. Anzi Paolo è furbo, scaltro, perché all’inizio del capitolo 9 scrive così: «Conosco la vostra buona volontà e mi vanto di voi con i Macedoni… E non avvenga che se qualcuno di loro venga con me, vi trovino impreparati e noi si debba arrossire – per non dire anche voi – di questa fiducia» (3-4).

Paolo in maniera surrettizia fa sentire ai Corinti la possibile figuraccia se non condivideranno i loro beni: immaginate cosa potrebbe pensare un macedone che viene con me e che è  più  povero se vede che voi siete poco generosi!

La condivisione era difficile anche al tempo delle prime comunità cristiane, per questo l’Apostolo non esita a usare qualche astuzia per stimolare le comunità a fare a gara nel donare.

E non si tratta solo di donare, ma anche di donare con gioia, perché Dio ama chi dona con gioia! Quindi non si tratta solo di condividere, ma di farlo anche bene, con gioia, con amore, con quella disponibilità di cuore che ti fa gioire con chi riceve più  che essere triste per ciò  a cui rinunci.

C’è poi una seconda indicazione che la parola di Dio suggerisce tra le tante che potremmo trarre per la nostra vita, oggi, in questo nostro tempo. Ed è  una indicazione che nasce proprio dalle poche cose che possiamo condividere: sette pani e pochi pesci, nella prima moltiplicazione erano cinque pani e due pesci (14,17). Anche in questo secondo racconto di moltiplicazione conta il poco che c’è, il poco che abbiamo, il saperci accontentare di quello che abbiamo.

Al meccanismo consumistico compulsivo che ci fa credere di essere tanto più liberi, quanto più consumiamo, occorre opporre una logica diversa, uno stile di vita diverso, che non solo permetta a noi di avere una vita più virtuosa…, ma che permetta di arrivare a indurre chi detiene il potere politico, economico, a scelte più rispettose dell’ambiente, della terra, dei popoli.

Papa Francesco nell’enciclica “Laudato sii” al cap. 6 scrive che «Manca la coscienza di una origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso con tutti» (202).

Ed è proprio importante questa consapevolezza perché da papa Francesco fa nascere alcune linee di spiritualità. Una spiritualità capace di tradurre in azioni concrete e stili di vita la coscienza del dono di Dio. Non una spiritualità rifugio e disincarnata, ma che sappia tenere insieme l’amore per Dio e la giustizia nei confronti degli altri. Da qui la necessità di essere sobri, umili, di sapersi accontentare.

Il motivo è fondato su questa consapevolezza, ma anche sull’esempio di Gesù, il quale da ricco che era si è fatto povero per arricchirci della sua povertà.  Non è un particolare irrilevante il fatto che i verbi usati da Gesù per condividere i pani e i pesci siano gli stessi verbi dell’ultima cena, gli stessi verbi che noi ripetiamo in ogni eucaristia: «prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo dava…».

Quattro verbi per dire il miracolo della condivisione che coincidono con i verbi che dicono il dono di sé fatto da Gesù, perché la sua vita è stata tutta una continua condivisione fino al dono di sé. Gesù  è davvero uno nel quale c’è piena coerenza tra parola e vita, in lui c’è quella coerenza totale che a noi manca tanto tra ciò che diciamo e ciò  che facciamo.

Trovo che sia importante concludere la settimana di preghiere per l’unità dei cristiani proprio su questa dimensione che ci vede condividere appunto con le altre chiese la stessa passione che ci viene dalla parola di Dio.

Il patriarca Bartolomeo già nel 2003 andava dicendo che occorre un cambiamento nell’essere umano, e per questo occorre passare dal consumo al sacrificio, dalla avidità alla generosità, dallo spreco alla capacità di condividere, in una ascesi che «significa imparare a dare e non semplicemente a rinunciare. È un modo di amare, di passare gradualmente da ciò che voglio io ciò di cui ha bisogno il mondo di Dio».