VIII DEL TEMPO ORDINARIO - Mt 6, 24-34


 

(Mt 6, 24-34)

Dopo che per due domeniche il Signore ci ha chiesto di ripensare ai nostri rapporti interpersonali, di rivedere come viviamo le nostre relazioni, come abitiamo la città, se seguendo la legge del taglione o se invece la abitiamo con amore, con un amore che è responsabilità dell’altro, non solo come questione affettiva e individuale, ma l’amore come cura, attenzione, appunto responsabilità, le parole di oggi del Signore ci rimandano ad un altro ambito della nostra vita qual è il rapporto con le cose, con i beni, con la ricchezza, con il lavoro.

Le  immagini cui ricorre Gesù sono molto belle: parla degli uccelli del cielo, dei gigli del campo, dell’erba verde del prato … e poi delle azioni che dicono il lavoro sia dell’uomo, come seminare, mietere, organizzare i granai e sia della donna, come la tessitura e la filatura.

Ma il Signore accompagna queste immagini con un’insistenza che non ci deve sfuggire e che riscontriamo nell’imperativo: non preoccupatevi, un verbo che si ripete almeno sei volte lungo tutto il brano: Non preoccupatevi. Quand’è che un cuore è preoccupato? Un cuore è pre-occupato quando è occupato prima di ciò di cui dovrebbe occuparsi. In aramaico ricchezza si dice mammona che sembra derivare dalla stessa radice da cui proviene il termine amen. Come a dire: qual è l’amen, il fondamento stabile, saldo del tuo cuore, della tua vita?

Dove si appoggiano i piedi della nostra esistenza, su quale roccia? Qual è la tua pre-occupazione? Che cosa ti è caro? Non ci rendiamo conto ma il denaro ci spinge a esprimere il valore economico mediante l’aggettivo «caro» . «Questo prodotto è più o meno caro…», in parallelo all’affetto che induce a dire a un altro «caro» («Mio caro..»). Una stessa parola per misurare il denaro e per misurare l’affetto, ovvero ciò che sta nel cuore.

L’invito di Gesù a guardare la vita come la vedono gli uccelli del cielo non è un invito al fatalismo, gli uccelli del cielo non sono un esempio di pigrizia, ma di libertà. Gesù non afferma: non preoccupatevi perché tanto c’è la provvidenza! Sarebbe un invito al fatalismo o alla superficialità, perché la provvidenza di Dio suppone naturalmente la collaborazione dell’uomo. Così come gli uccelli del cielo vanno a cercare il cibo, non se lo trovano sul becco e i gigli del campo devono affondare le loro radici nella terra per trarne alimento …  Ad ognuno di noi è chiesto di fare del proprio lavoro una collaborazione alla creazione, ma senza preoccuparci.

Non siamo invece oggi tutti pre-occupati? Anche perché di questi tempi come si fa a non preoccuparsi?  Bisognerebbe vivere fuori dal mondo per non preoccuparsi del lavoro, del bilancio famigliare, del futuro dei nostri figli. Non appare sufficiente affidarci a quella che nel gergo cristiano è chiamata la Provvidenza e vorrei farvi notare che Gesù non parla della provvidenza di Dio, ma dice: Cercate il regno di Dio e la sua giustizia.  

Il Signore ci chiede di aprire il cuore, di allargare lo sguardo per … agire con la giustizia di Dio, il che significa che il nostro modo di stare di fronte alle cose si ispira al modo stesso di essere e di agire del Padre, quel Padre che diceva domenica scorsa fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, ed è lo stesso che nutre gli uccelli del cielo e che riveste di meraviglia i fiori di campo.

Così come Gesù chiedeva al discepolo un atteggiamento di responsabilità nei confronti dell’altro, del prossimo, oggi chiede questo stesso atteggiamento di responsabilità anche nei confronti dei beni, della ricchezza, del denaro, del lavoro. Un atteggiamento di responsabilità che non divinizza ovviamente la ricchezza come sembra essere oggi prevalente, ma che nemmeno demonizza ipocritamente il denaro e la ricchezza, equiparandoli nella versione vulgata a sterco del diavolo, a radice di ogni male, salvo poi accumularne a sproposito. Anche perché la Bibbia, e non solo, ci invita a più riprese a considerare la ricchezza come benedizione di Dio, come manifestazione del favore divino (Dt 24, 11).

Di per sé il Vangelo non chiede un pauperismo radicale, il radicalismo di Gesù non si qualifica per la quantità della rinuncia, ma per la totalità dell’appartenenza, perché si può lasciare tutto e tuttavia restare lontani dal progetto del regno di Dio, progetto che si ispira al modo di fare dell’Eterno: se egli fa sorgere il sole sui giusti e sugli ingiusti, perché tu allora continui ad accumulare per te stesso?

Dio conosce il cuore dell’uomo e sa che questa è la grande tentazione e seduzione che coinvolge singoli, famiglie, nazioni e continenti; sa che esiste un regno del denaro frutto di un cuore personale e collettivo che lo ha eletto come signore del mondo. E così senza che uno se ne renda conto passa dal possedere il denaro all’essere posseduto dal denaro che si insedia al centro dei propri pensieri, dei propri sentimenti e dei propri desideri, come promessa di felicità, di stabilità, di visibilità ed esibizione.

Lao Tze, fondatore del taoismo (VI sec. A. C.) racconta la storia di Tsi, il quale ormai sedotto dal denaro, un giorno recatosi al mercato, passando davanti a un banco di cambio, rubò il denaro e fuggì. Arrestato nel giro di poco le guardie gli chiesero: ma come hai potuto pensare di rubare questo denaro e poter fuggire inosservato? La risposta di Tsi: Mentre rubavo il denaro io non vedevo la gente, vedevo solo il denaro.

Ecco, il denaro esercita un tale fascino che occulta la presenza di altre persone e altre cose, un fascino che accorda addirittura la forza di rubare … Sì, il denaro ci seduce, entra in noi come una presenza efficace e contribuisce in modo sordo ma reale a tessere i nostri rapporti, le nostre relazioni con le cose e con gli uomini. Io possiedo il denaro, ma il denaro mi possiede altrettanto.

Il denaro ha un posto invadente nei miei desideri, decide di molti miei desideri e diventa così un valore che permea il villaggio globale, come un totem intorno al quale tutti danzano: i vecchi rincitrulliti dal denaro e i giovani e le giovani che storditi dal desiderio di averne sempre di più e sempre più velocemente, arrivano anche a buttarsi via. Ma quando uno vede solo il denaro e non vede più il volto dell’altro, anche se riesce a costruire un impero, tuttavia  prima o poi deve rendere conto prima che a Dio, alla storia.

Lo vediamo in queste settimane mentre assistiamo alla primavera di quei Paesi che in gran parte si affacciano sul Mediterraneo: sia pure nella diversità delle popolazioni e delle culture, della storia e delle politiche, tutti i dittatori che hanno costruito ricchezze immense alle spalle dei loro cittadini, alla fin fine, chi prima e chi dopo, si trovano a fare i conti con la storia che essi pensavano di aver dirottato a loro favore. Se non cerchi la giustizia di Dio anche nei rapporti con le cose, con il denaro, con la ricchezza, prima o poi la storia ti chiede il conto.

Allora il gestire la propria ricchezza imparando dall’Eterno significa condividere, partecipare, realizzare un’economia di comunione. Questa è l’etica della responsabilità. Una convinzione che viene da lontano, come diceva un grande padre della Chiesa del IV sec. Giovanni Crisostomo: Mio e tuo non sono che parole prive di fondamento reale. Se dici che la casa è tua, dici parole inconsistenti perché l’aria, la terra, la materia sono del Creatore, come pure tu che l’hai costruita. Non aiutare i poveri è rubare: quanto possediamo non appartiene a noi, ma a tutti (Omelie sulla 1 Cor 10,3).

Occorrerebbe l’onestà di chiederci per quale motivo come Chiesa siamo diventati così restii ad ascoltare queste parole, che suonano desuete agli orecchi della maggior parte dei cristiani: perché insistiamo tanto su altri aspetti dell’agire morale, mentre preferiamo essere tiepidi o addirittura tacere sulla necessità della condivisione materiale dei beni, via maestra per eliminare, o almeno attutire, il bisogno e la povertà? In questo tempo in cui non solo Dio è morto, ma è morto anche il prossimo, il denaro domina e seduce più che mai. Preghiamo perché almeno la Chiesa torni ad essere segno profetico del modo di agire dell’Eterno e impari ad essere povera e capace di condivisione.