II DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Mt 21, 28-32
(Is 5, 1-7; Gal 2, 15-20; Mt 21, 28-32)
Ad essere rigorosi nel racconto di Gesù nessuno dei due figli può vantare nei confronti del padre un’obbedienza esemplare. Sicuramente non il secondo che dice «sì» e poi invece non fa niente, ma nemmeno il primo che subito dice «no» e poi invece va a lavorare alla vigna.
In nessuno di loro c’è piena corrispondenza tra il dire e il fare, tra la parola e la prassi. Nessuno di loro è un campione di coerenza. Una prima lettura superficiale farebbe dire che queste parole del Signore sono una critica a Israele paragonabile al primo figlio che dice «sì» e poi invece non agisce di conseguenza, ma non è vero perché anche le prostitute e i pubblicani appartengono al popolo eletto. Piuttosto il Signore mette in evidenza come nello stesso popolo ci sia un duplice atteggiamento, come d’altronde in noi stessi, in ciascuno di noi, al punto che la frase «Un uomo aveva due figli» si potrebbe tradurre: «un uomo aveva due cuori».
Perché in realtà siamo tutti così, contradditori e ambigui, con due cuori: uno che dice «sì» e uno che dice «no». Siamo abitati dal doppio desiderio: quello di apparire e di “recitare” davanti agli altri e quello di essere autentici, coerenti.
Non è forse alla coerenza che educhiamo i nostri figli, i nostri alunni, coloro con i quali abbiamo una qualche relazione educativa? A fare in modo che tra il dire e il fare ci sia una piena corrispondenza? Ma dovremmo anche dire loro che non siamo capaci di esserlo fino in fondo. Dovremmo raccontare loro che, per rimanere alla pace, facciamo tanti discorsi, magari preghiamo anche, e onestamente ci preoccupiamo per la pace, ma poi costruiamo gli F35, investiamo i nostri denari in banche armate… insomma la coerenza non è proprio il nostro forte.
La preoccupazione di Gesù non sembra semplicemente quella di esigere da parte nostra l’essere tutti d’un pezzo, anzi mettendo davanti come esempio le prostitute e i pubblicani, vuole dirci qualcosa di più che non un richiamo morale alla coerenza, che di per sé rimane un valore importante.
Gesù, che ben conosce il cuore dell’uomo, ci dice appunto che i pubblicani e le prostitute ci passano avanti nel regno di Dio.
Cioè davanti a Dio loro ci precedono! Non è che noi siamo esclusi dalla presenza di Dio, grazie al cielo, ma non ci accade nemmeno di essere preceduti dal papa e dai vescovi o dai santi… cosa che sarebbe più accettabile, no! siamo preceduti dalle prostitute e dai pubblicani! Perché? Perché è venuto Giovanni sulla via della giustizia e voi non gli avete creduto, i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto.
La precedenza nel regno di Dio è per chi cammina sulla via della giustizia. Ma di quale giustizia stiamo parlando?
Gesù pone domande nel Vangelo, interroga l’intelligenza di chi gli sta di fronte. Sarebbe interessante condividere quale idea di giustizia secondo noi ha in mente Gesù. Ci aiuta la parabola breve dei due figli che vanno a lavorare nella vigna e che rimanda alle parole di Isaia. Nella prima lettura che è un canto d’amore nel quale il Signore fa esplodere il suo amore appassionato per la vigna che è il popolo, la nostra umanità, racconta che il Signore, come un innamorato perso, fa di tutto per la sua amata.
Lo dice anche la costruzione poetica davvero straordinaria: il termine «vigna» ricorre sei volte, un numero incompleto che attende una pienezza. Al v.2 poi sono ricordate anche sei azioni di Dio: l’ha vangata, l’ha sgombrata dai sassi… anche qui sei azioni che attendono una settima azione come risposta all’amore di Dio. Vale a dire che il dono di Dio abbonda, è esagerato come quello di un innamorato, appunto sono sei le sue azioni, ma attende la risposta dell’uomo, che dovrebbe essere la settima, perché non ci può essere iniziativa di Dio che prescinda dalla libertà umana. E invece, conclude Isaia, ecco il risultato: Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.
Ritorna il termine «giustizia» e possiamo comprenderlo anzitutto come riconoscimento del dono di Dio, come accoglienza della sua tenerezza, alla quale però occorre rispondere con la nostra responsabilità, con il nostro dono. E invece l’uomo destinatario del dono della vita, del creato, dell’altro, dell’amore… risponde con arroganza, con violenza e con oppressione. Non siamo capaci di giustizia, cioè non siamo capaci di corrispondere con coerenza all’iniziativa e all’amore di Dio. Non siamo affidabili. E allora? Cosa possiamo fare?
Paolo scrivendo ai Galati dice che la giustizia (che lui chiama «giustificazione») non è una conquista umana della nostra buona volontà, ma è un dono che ci viene fatto dal Cristo nella misericordia e nel perdono. In lui riconosciamo i due tratti del volto di Dio: giustizia e misericordia, che sono come i due binari sui quali corre ancora oggi la parola di Dio, i due pilastri sui quali costruire la nostra vita.
La fede non ci rende impeccabili, così da farci arroganti, a quel punto potremmo presumere di salvarci da soli. Credere è vivere secondo giustizia, saper riconoscere il dono di Dio che attende la nostra risposta e riconoscere che la nostra conversione non ha mai fine. L’Eterno che ben conosce il nostro cuore ci offre la possibilità di ritornare, di ravvederci, e questo lungi dall’essere un segno di debolezza, è indice di grandezza umana e spirituale, perché così si ristabilisce la giustizia e la misericordia che sono il concime che fa crescere la vigna di Dio nella storia del mondo.
Paradossalmente, dice Gesù, coloro che dicono di no al Vangelo, ai valori, a una vita onesta… ma che poi si pentono, ebbene costoro nel regno di Dio passano avanti a coloro che proclamano valori e li sbandierano, ma la cui vita non cambia di una virgola! Vogliamo capire da che parte stiamo? Basterebbe farci una domanda semplice: Ma se non fossi discepolo di Gesù, che cosa cambierebbe nella mia vita? Che cosa di diverso ci sarebbe?
Quando Matteo scrive questa pagina non può non pensare alla sua stessa esperienza. Matteo può dire di se stesso che da peccatore incallito seduto dietro al banco delle imposte, lui un pubblicano poco avvezzo alle cose religiose – non credo andasse al tempio ogni giorno –, ebbene proprio lui ha ritrovato la giustizia e la misericordia nello sguardo d’amore del Cristo e così ha saputo fare della giustizia e della misericordia la sua nuova vita. Poteva diventare un religioso rigido e arrogante, e invece non ha mai dimenticato la misericordia di Dio incontrata in Gesù.
Questi sono i frutti che il Signore si attende dalla sua vigna, che sono anche i frutti che tutta l’umanità aspetta. Perché il lavoro nella vigna è un lavoro da figli. E il lavoro di tutta una vita è proprio quello di far emergere il nostro essere figli amati. Questa è la vocazione: vai a lavorare nella vigna, la vigna è il popolo di Dio, è l’umanità promessa, per produrre frutto, ovvero la giustizia e la misericordia.
La nostra dignità è di essere figli che sanno di sbagliare. Dico dignità perché l’uomo è l’unico essere vivente che può dire ho sbagliato, e così esercita la sua intelligenza… allora può diventare libero e cambiare. Uno che non riconosce l’errore o è disonesto o è sciocco. L’uomo va avanti perché riconosce gli errori precedenti… questa è la nostra sicurezza. Uno non è cristiano perché è bravo… perché poi è sempre più bravo, sempre più bravo… Al punto che si crede Dio. Ma è cristiano perché è perdonato e amato da Dio e vive con gli altri ciò che ha ricevuto in dono.
Allora preghiamo insieme, gli uni per gli altri, perché una preghiera intensa di tutti ci preservi dal rischio di una sequela di Cristo, arrogante e presuntuosa, propria di chi non sa pentirsi. E poter così arrivare a dire con Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me», nel senso che la nostra vita non può più fare a meno della giustizia e della misericordia, vero concime che fa crescere la vigna di Dio.