ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA - Lc 1, 39-55
(Ap 11,19;12,1-6.10; 1Cor 15, 20-26; Lc 1, 39-55)
Vorremmo poter cantare con gioia e allegria il Magnificat così come ci insegna Maria oggi, ma in questa festa dell’Assunta, in sintonia con la Chiesa italiana, vogliamo unirci nella preghiera con quei cristiani che nel mondo sono perseguitati e sono minacciati nei loro diritti, nei loro beni e addirittura nella vita stessa. Pensate che i Paesi nel mondo che perseguitano i cristiani sono più di 130. È sotto gli occhi di tutti la situazione drammatica in Iraq; in Corea del Nord si calcolano 70mila cristiani rinchiusi in campi di lavoro a motivo della loro fede; in Nigeria, ad opera di fanatici integralisti, prosegue la distruzione di chiese e l’uccisione di cristiani…
Parliamo di «cristiani» perché, come diceva papa Francesco, In alcuni paesi ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una Bibbia, e prima di ammazzarli non domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o ortodossi. Il sangue è mischiato. Per coloro che uccidono siamo cristiani (La Stampa,15 dicembre).
Questo «ecumenismo nel martirio» deve aiutarci a superare le barriere e le divisioni e a crescere nel rispetto delle diversità nei modi di seguire Cristo, nella stima gli uni degli altri in quanto siamo tutti discepoli di Gesù. È questo un primo significato della nostra preghiera.
Ma ci domandiamo anche cosa ci può dire in questo contesto la figura di Maria che celebriamo nel mistero della sua assunzione in cielo?
Quando ascoltiamo la prima lettura pensiamo alle molte statue dove Maria viene raffigurata con la (mezza) luna sotto i piedi, le dodici stelle sul capo… ma quando Giovanni scrive il libro dell’Apocalisse, meglio dire della Rivelazione, dobbiamo stare insieme a lui, anch’egli perseguitato e in esilio sull’isola di Patmos, da dove può pensare e riflettere su quello che sta accadendo alla chiesa, alle chiese di Gesù.
Dalla sua riflessione e meditazione fa giungere alle comunità perseguitate un messaggio, una parola che non è una parola di consolazione a buon prezzo, come una pacca sulla spalla, piuttosto quello che Giovanni ormai centenario scrive è una lettura, «una visione» della realtà e della storia. Ed è ciò di cui anche noi abbiamo bisogno. Cosa vede Giovanni? Una donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi e sul capo una corona di dodici stelle, e questa donna è incinta e grida per le doglie e il travaglio del parto.
Questa donna è la Chiesa, la comunità dei discepoli di Cristo che è vestita di sole. Vestita da chi se non da Dio stesso? è Lui che la veste di sole, di luce e di calore! E poi la donna sta con la luna sotto i piedi, come dire che proprio perché amata da Dio non deve avere paura dello scorrere del tempo, anzi tiene il tempo sotto i suoi piedi come vedremo dopo. Infine l’ornamento della donna è completato da una corona di dodici stelle. Anche la corona è un dono di Dio, il dono appunto delle dodici stelle, della prima alleanza con le dodici tribù d’Israele. La donna raccoglie in sé tutta la storia che l’ha preceduta, è lei stessa figlia di Sion, erede della prima promessa.
Questa è la condizione della Chiesa, come quella di una madre che sta per partorire, la Chiesa genera Cristo nel mondo, ma questo avviene proprio come succede normalmente in un parto: nel dolore il dono della vita. Il problema è che alla donna che soffre le doglie del parto si contrappone un drago. Per cui questa povera donna oltre alle difficoltà intrinseche al parto stesso, deve subire anche quelle derivanti dall’ambiente storico ostile in cui esso avviene.
Si tratta dell’opposizione e della persecuzione ad opera di un potere raffigurato con una descrizione per noi improbabile, ma non è un caso che abbia sette teste perché al lettore venivano in mente i sette colli su cui si estendeva Roma e non è un caso che abbia dieci corna, al tempo di Giovanni si erano succeduti sul trono di Roma dieci imperatori, a partire da Giulio Cesare.
Il tempo è difficile, dice Giovanni, alle comunità cristiane, camminiamo come nel deserto, ma questo è un tempo che ha una durata precisa di 1260 giorni, ovvero di tre anni e mezzo… una cifra per dire che la prova ha un limite, non è un tempo pieno, perché il tempo pieno è rappresentato dal numero 7. Se la persecuzione dura tre anni e mezzo, significa appunto che non è definitivo.
Anche noi come Giovanni dobbiamo imparare ad avere questa visione delle cose. Dalla storia del cristianesimo sappiamo che dare testimonianza di Cristo non avviene mai senza dolore, non accade mai senza l’incomprensione. Noi assistiamo alla persecuzione dei cristiani, e non solo, ma anche di tante minoranze, subiamo la distruzione di luoghi di culto, viene messa in pericolo la stessa presenza dei cristiani in terre che sono state la culla del cristianesimo primitivo… ma sappiamo che il drago rosso e violento dell’Apocalisse non avrà il sopravvento sul dono di Dio. Sappiamo che Dio non viene meno alla sua fedeltà nonostante la prova.
E questa fede non ci fa evadere dalla storia, ma suscita in noi atteggiamenti autentici, come è stato per Maria. Settimana scorsa la delegazione episcopale francese (guidata dal vescovo di Lione, mons. Barbarin) recatasi a Erbil è rimasta attonita di fronte all’emergenza umanitaria, ma ancor di più di fronte al fatto di non aver udito dai cristiani iracheni una sola parola di odio verso i musulmani: l’autentico credente sa che le violenze e le atrocità commesse contro gli esseri umani non sono e non saranno mai gesti richiesti da nessuna fede.
In secondo luogo, come cittadini del mondo, dovremmo pur chiedere conto ai detentori del potere politico e finanziario di chi e come fornisce soldi o armamenti – o entrambe le cose – a gruppi di fanatici i quali, anche se blanditi all’inizio, immancabilmente finiscono per diventare incontrollabili.
Infine, se avessimo dato ascolto a quanto diceva don Giuseppe Dossetti già nel 1990 con voce profetica e lucida: «Anche se Saddam Hussein fosse eliminato, l’Occidente si troverà di fronte a un islamismo radicale più difficile da combattere e ideologicamente più inestirpabile», probabilmente certi errori non sarebbero stati commessi.
Ma la festa di oggi ci offre anche una visione che va oltre la storia. Quando Maria nel vangelo di Luca, va a trovare Elisabetta ed è l’incontro di due donne gravide, Elisabetta saluta Maria dicendole: Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo. Maria per tutta risposta le dice di non guardare a lei, ma la invita a magnificare il Signore, e così facendo compie quanto Giovanni dice ai cristiani perseguitati: volgete lo sguardo al Signore, lui disperde i superbi, rovescia i violenti dai loro troni, ha occhi per gli umili e cura per gli affamati… fidiamoci di Dio, dice Maria, ve lo dico per esperienza: ha guardato a me che non contavo nulla!
Così Maria distoglie l’attenzione da sé per riportarla su Dio. Il Magnificat è il canto del Dio degli umili, ma insieme è l’inno alla grandezza di Dio che può rialzare dalla morte e dai cui vincoli – come festeggiamo oggi – ha liberato Maria.
Certo, come scrive Paolo, Gesù è la primizia dei risorti, ed è nella Pasqua di Gesù che celebriamo l’assunzione di Maria, proprio perché la Pasqua non è destinata soltanto a lui, ma coinvolgerà tutta la creazione. Maria è già in questa pienezza perché non si è mai lasciata separare da Dio e dal suo amore in Cristo, e così partecipa pienamente del mistero pasquale.
Oggi, allora, con tutta la Chiesa preghiamo con questa speranza soprattutto per i perseguitati, per i cristiani e per tutte le minoranze religiose che soffrono persecuzione: celebrando l’assunzione di Maria in anima e corpo teniamo viva la promessa che Dio ha per tutti i suoi figli, una promessa di salvezza e di vita eterna.