V DI PASQUA - Gv 13, 31b-35
Quando ero più giovane e mi capitava di leggere le parole di Paolo pensavo: che bello questo inno! Basta impegnarsi, metterci un po’ di buona volontà ed è fatta… Adesso, a distanza di qualche anno, mi rendo conto che non solo non è così semplice: dipendesse semplicemente dalla mia, dalla nostra decisione il mondo sarebbe migliore! Ma così non è.
Paolo dice che l’amore è «il carisma», cioè la grazia, è il dono, non un dono, ma «il dono». L’amore è il più grande dono perché è il donatore stesso. È Dio. e così allora entriamo in una comprensione diversa di questa pagina.
Perché san Paolo scrive queste cose? Perché la comunità di Corinto era certamente ricca di qualità, di iniziative, una comunità vivace, però era anche attraversata da invidie, gelosie, divisioni, faziosità… sembra di sentire la descrizione di una comunità cristiana e della chiesa di oggi. Nella chiesa ancora oggi si muore spesso di «fuoco amico». Chi fa più del male alla chiesa è proprio chi in nome di una sua idea di cristianesimo combatte gli altri.
Paolo scrivendo alla comunità di Corinto richiama i cristiana alla loro responsabilità nel mondo e nella storia: se voi siete di Cristo, siete il corpo di Cristo in questo tempo, chiedete a lui il dono più grande che è amare come lui ci ama. Perché anche se io possiedo grandi doni, capacità strepitose, ma se non amo sono come una campana rotta. Una campana rotta suona, ma il rumore non è musica. Paolo incalza nel dire: tutti i doni sono importanti, ma senza il dono dello Spirito che è l’amore nei nostri cuori, trionfa l’individualismo, imperano l’orgoglio e la superbia. E il corpo di Cristo è diviso.
Ma cosa è amare? Partiamo anzitutto dal vocabolario, laddove noi leggiamo carità, in greco è agape. Oggi dire carità equivale a elemosina, vuol dire donare qualcosa, che pure è cosa importante, ma qui parliamo di amore e non solo di elemosina. Però anche dicendo “amore” ognuno di noi intende cose diverse, amore può essere la persona che abbiamo a fianco, l’amore di una vita, per un altro è l’emozione dell’innamorato… ma l’agape non è il sentimento, non è l’eros, che pure sono dono di Dio non è l’istinto iscritto nei nostri desideri, nelle nostre pulsioni. Infatti Paolo continua ad alternare alcuni verbi positivi e altri negativi per aiutare il discernimento che ciascuno di noi è chiamato a fare con se stesso.
Ci concentriamo sui quindici verbi della parte conclusiva (vv. 4-8).
«L’amore è magnanimo», ha l’animo grande (makrothymei). Chi ha l’animo grande, se non Dio che è lento all’ira, ed è appunto longanime, magnanimo? Se Dio dovesse reagire lasciandosi guidare dall’impulso di giustizia saremmo finiti tutti. Invece la Scrittura dice che la magnanimità di Dio è il contrario di quando diciamo: «questa cosa non la mando giù», perché l’amore contiene tutto, e imparo a mettere anche la piccola cosa negativa dentro un quadro più ampio, in un orizzonte nobile, dove il riferimento è l’amore di Dio, l’amore di Gesù che ama anche Giuda che è appena uscito dal cenacolo, come abbiamo sentito dal vangelo! Ecco, la grandezza dell’amore si mostra quando la persona non si lascia guidare dagli impulsi e evita di aggredire.
Se non abbiamo un cuore grande anneghiamo nella piccineria, nella grettezza… non ci andrà mai bene niente di quello che fanno e dicono gli altri. Ma provate a pensare se Dio cominciasse a criticare qualcosa di noi non finirebbe mai! Voler bene non è criticare sempre, la critica viene dall’amarezza nei confronti dell’altro ed è la meschinità del nostro egoismo: attacchi l’altro perché lo vorresti come te.
«L’amore è benevolo». Se il verbo precedente poteva indurci alla passività, ad essere rinunciatari, quest’altro (che è un apax) indica un atteggiamento attivo, proprio dell’ amore che vuole il bene degli altri.
Amare non è solo un sentimento, ma è volere il bene dell’altro, che è il contrario di quando noi amiamo usando l’altro. L’egoismo asserve l’altro a se stessi, l’amore serve l’altro perché sia contento, felice. È l’atteggiamento concreto di servizio, è disponibilità a servire l’altro per il suo bene.
Il terzo verbo dice che l’amore «non è invidioso». L’invidia è la tristezza che proviamo per il bene, per il successo e la notorietà dell’altro… rivela che in definitiva non ci interessa la sua felicità, perché lo percepiamo come minaccia per noi, per il nostro successo, la nostra gloria. Ma sappiamo dove conduce l’invidia, nel vangelo di Marco, Gesù viene consegnato a Pilato per invidia! (15,10: «Sapeva che i sommi sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia»). L’invidia è il principio della morte.
«Non si vanta». L’amore dice Paolo è il contrario di chi si mostra superiore per impressionare gli altri con un atteggiamento pedante e aggressivo; è il contrario di chi parla sempre di se stesso, di chi si mette davanti a tutto e a tutti. Quante volte diciamo “io, io…” perché cerchiamo la nostra identità nella direzione sbagliata al di fuori dell’amore, nell’affermazione di noi stessi, nel metterci sopra gli altri.
E così anche il verbo che segue è molto simile: l’amore «non si gonfia». L’amore non si ingrandisce di fronte agli altri, l’egoismo invece si gonfia, di cosa? di vuoto! E poi… scoppia. E poi se ti gonfi perdi il senso della realtà… perché uno finisce per considerarsi più grande di quello che è. Mentre l’amore si rimpicciolisce. Figurativamente il gonfiarsi ti fa chiudere gli occhi al punto che non vedi nemmeno più l’altro. Uno si crede più grande perché pensa di sapere più cose degli altri e si dedica a controllarli, quando invece l’amore sostiene e si cura proprio del debole.
«Non manca di rispetto». L’amore è rispetto, stima dell’altro. Quanto vale l’altro? Più di me! La stima è davvero importante, non è mai rude, scortese e detesta far soffrire gli altri. Il suo parlare è di incoraggiamento e di conforto.
«Non cerca il proprio interesse». Cos’è l’interesse? Letteralmente è ciò che mi sta dentro, inter-esse. L’amore non mette se stesso al centro, ma mette l’altro. Questo amore si declina nella gratuità, nella generosità, perché è proprio dell’amore, dell’agape voler amare più che essere amati.
«Non si adira». In gr. Non è puntuto. L’amore non punge, perde le punte, è levigato, soave. L’indignazione è sacra di fronte all’ingiustizia, ma mai di fronte all’altro.
«Non tiene conto del male ricevuto»: il tener conto è proprio del ragioniere che appunto tiene tutto sul conto. L’amore di Dio non tiene conto, non ragiona in termini di dare e avere, ma di perdono. Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più la colpa, di immaginare sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di intenzioni malvagie. Oggi sappiamo che per poter perdonare abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante di comprendere e di perdonare noi stessi. Abbiamo bisogno di pregare con la nostra storia, di accettare noi stessi, di saper convivere con i nostri limiti. Essere capaci di questo suppone l’essere perdonati da Dio.
L’amore poi «non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità». Davanti all’ingiustizia l’egoista gode se essa avviene contro qualcun altro, si dispiace ovviamente se è a proprio svantaggio. Mentre l’amore si dispiace, soffre per l’ingiustizia e si rallegra per il bene dell’altro, ma questo è impossibile quando uno è sempre in competizione o in confronto continuo con gli altri.
Arriviamo alle ultime quattro espressioni che abbracciano la totalità: l’amore non lascia fuori dei pezzi, «tutto scusa». Il verbo è coprire: tutto copre, come sotto un tetto. Nel senso che trattiene la sua lingua dal giudizio negativo che potrebbe dire nei confronti dell’altra persona.
«Tutto crede», non è la fede in senso teologico, ma nel senso corrente di dare fiducia, proprio di chi dà fiducia. È molto importante che le persone non smettano di credere in noi. Se i genitori non accordano fiducia e non credono un poco nei figli, questi non crescono. L’amore crede all’altro. Perché è consapevole che noi siamo un materiale sempre lavorabile. È riconoscere la luce accesa da Dio, anche dietro un muro di oscurità, di buio.
«Tutto spera». Oggi la speranza si è ridotta a un banale affidamento che fa dire che è «sempre l’ultima a morire…». Ma l’amore che spera, è l’amore che sa che anche l’altro può cambiare. Spera che sia possibile una maturazione. Non vuol dire ingenuamente che cambierà tutto, ma che in definitiva Dio scrive dritto anche sulle righe storie.
Infine l’amore «tutto sopporta». Amare è stare saldi anche quando si è sotto le contrarietà, i problemi. Ne abbiamo un esempio nelle parole del vangelo di Giovanni, quando nella sera dell’Ultima Cena, in un clima di alta intensità di emozione, Gesù avverte tutta la sua solitudine (dove vado io voi non potete venire) eppure non smette di amare, sopporta anche il tradimento dei suoi e l’incomprensione.
Riprendiamo da soli in questa settimana la lettura dell’inno di Paolo, ripercorriamo questi quindici verbi che dicono anzitutto le quindici declinazioni dell’amore con cui Gesù ci ama, perché Gesù così ci ama e il suo Spirito ci mette sul cammino perché anche noi amiamo così.
Lo Spirito è l’amore che il Padre ha per il Figlio e il Figlio per il Padre, questa è la vita di Dio e tutta la nostra vita è diventare ciò che siamo, cioè figli.
Chiediamo al Signore quello che ci manca di questi doni dell’amore. Non chiediamo altre cose, non chiediamo virtù e sapienza, chiediamo l’amore, perché possiamo dare un colpo d’ala a questa nostra chiesa, come dice un antico detto medievale: «I virtuosi camminano, I sapienti corrono. Solo gli innamorati volano».