XI DOPO PENTECOSTE - Mt 21, 33-46


(1Re 18, 16-40; Rm 11,1-15; Mt 21, 33-46)

Nel ripercorrere i vari momenti della storia biblica, della storia di salvezza, incontriamo oggi una tappa decisiva. La parola di Dio che abbiamo ascoltato ci conferma che nei tempi più duri e difficili il Signore non fa mancare mai profeti al suo popolo. Nel finale del vangelo abbiamo ascoltato come i sacerdoti e i farisei avrebbero voluto arrestare il Cristo, ma in quel momento non lo fecero perché avevano paura della folla che lo considerava un profeta.

Quando si parla di profeti, uno viene assunto a simbolo di tutti, è il profeta Elia che, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, irrompe sulla scena poco dopo la morte di Salomone (931 a. C.). Anche quello fu un periodo storico difficile. Era accaduto quello che nella storia succede spesso, ovvero le dodici tribù che erano appena diventate un regno solo con Davide e poi con Salomone, ben presto si divisero: la gran parte forma il regno del Nord (Israele) e la tribù di Giuda il regno del Sud (Giuda). Una divisione ingiusta perché dettata dalla preoccupazione di tutelare i privilegi di un Nord più ricco e forte e tra l’altro governato da re mediocri ed egoisti che stipulano alleanze ambigue e miopi nell’intento di salvaguardare la propria ricchezza e darsi sicurezza, contro un Sud più precario.

Il re Acab, di cui abbiamo letto, è uno di questi re del Nord, personaggi mediocre, per assicurarsi l’alleanza dei fenici sposò la principessa Gezabele, figlia del re di Tiro, donna ambiziosa e crudele che finì per imporsi sul debole re Acab così da fargli costruire templi pagani con i relativi culti. Infatti vantava alle sue dipendenze 450 profeti di Baal e 400 profeti di Asera (divinità cananea della fecondità), gli stessi che Elia sfidò sul monte Carmelo e che «mangiano alla tavola di Gezabele», erano cioè pagati e mantenuti dalla regina. E sappiamo che quando uno è al soldo del potente di turno, non può che dire e fare cose gradite a chi gli dà da mangiare.

In questo contesto sorge nel regno del nord il profeta Elia, contemporaneo di Omero, ma con una proposta diversa da quella greca dell’epopea dell’eroe che salva con l’astuzia e la forza o del veggente che “prevede” il futuro. Elia (in ebr. «Solo il Signore è Dio») non è un eroe, ma è un nabî, un profeta, uno che ha lo sguardo capace di andare oltre la cronaca e non perché sia un indovino, ma perché anzitutto vigila sul proprio cuore e su quello del popolo, un cuore sempre a rischio di vendersi al miglior offerente e che finisce per stordirsi dei surrogati di Dio.

Elia, nella sua solitudine, dinnanzi a quella schiera di profeti a pagamento, dinnanzi a governanti accecati dai propri interessi e intrallazzi, di fronte a un popolo che salta da una parte all’altra, cioè che aspetta di salire sul carro del vincitore, rende evidente quello che poi Gesù conferma nel Vangelo e cioè che il peccato dà sempre tristezza. Il fascino del male incanta per un momento, ma poi risulta devastante.

Nella storia biblica il peccato non è una realtà astratta, ma è sempre una forma di idolatria, ovvero di asservimento, di chi vende il cuore e la mente all’ebbrezza del momento. Noi non ci consideriamo più così ridicoli da venerare i vari Baal e Astarte, eppure a ben pensare cambiano i nomi, ma l’uomo da sempre è portato svendere la dignità della propria vita per quattro soldi, a piegare la schiena davanti al potente di turno, a strisciare davanti a quelli che promettono ricchezza facile e successo garantito.

Di fronte a questo costume diffuso, si erge la figura solitaria di Elia c he è una figura tragica: mentre la gente insegue gli idoli del momento, lui appartiene a Dio e a nessun altro. Lui può dire quello che anche noi abbiamo ripetuto nel salmo: Sei tu, Signore, l’unico mio bene!

Non è facile rinchiudere Elia in quelle etichette da stadio cui spesso ricorriamo per classificare le persone, per mancanza di pensiero: Elia, per intenderci, come gli altri profeti, non è né conservatore né progressista, non è un contestatore di professione… se critica le ambiguità o le infedeltà del presente lo fa perché si affida alla parola di Dio ed è preoccupato per il futuro della vigna del Signore. Non evita il confronto con coloro che invece di prendersi cura della vigna, inseguono i loro capricci creando le premesse per un futuro di dolore e di tristezza.

Passano i secoli e cambiano le civiltà, ma quando arriva Gesù, sembra che la storia non abbia insegnato nulla. La vigna, immagine della cura che il Padre ha per l’umanità, è bistrattata e coloro che dovrebbero essere i vignaioli in realtà pensano a se stessi e al proprio tornaconto e hanno sostituito al Signore, unico bene, i surrogati dell’interesse, del denaro, del potere, del successo … L’umanità stenta a comprendere che l’idolatria e il peccato, possono dare l’ebbrezza di un momento, possono dare un senso di liberazione poi però uccidono, come finiscono i profeti a pagamento di Gezabele o i vignaioli della parabola. Il peccato rattrista sempre.

Ti puoi anche sentire contento dopo uno scatto di rabbia, puoi provare l’ebbrezza eccitante dell’ira, queste cose sembrano farti sentire grande: perché quando uno dà sfogo a una sua passione ha l’impressione di essere potente, di essere padrone del mondo. Ma il peccato non dà gioia, non fa crescere. È sempre una regressione. Magari in quel momento per inseguire un risultato che ti sembra la cosa più importante, sei disposto a vendere la tua dignità, a scendere a compromessi con te stesso. E per ottenere un attimo di soddisfazione e di gloria, rinunci a ciò in cui credi, e non ti rendi conto che in realtà ti fai del gran male.

Mi ha molto colpito la vicenda di Alex Schwazer alle olimpiadi di Londra. Quel ragazzo altoatesino ha raccontato molte cose che ci riguardano da vicino. Ha detto che in casa sua ci sono le medaglie, ma che la vita è importante per la famiglia, per gli amici, per la vita normale. Ascoltando Schwazer, mi sono sentito vicino alla sua umanità. Non perché abbia bisogno del mio perdono, ma solo per comprenderlo e rispettarlo come persona.

Il moralismo che si è sentito in giro in questi giorni lo trovo asfissiante e falso, frutto di un fariseismo che ammorba l’aria del nostro Paese. È facile fare i sepolcri imbiancati, essere pronti a giudicare gli altri e a non mettersi mai in discussione. Giudicare senza conoscere, senza sapere. Certo, Schwazer ha compiuto un gravissimo errore, prima di tutto nei confronti di se stesso.

Ma la sua esperienza, proprio perché tremenda, secondo me è lo specchio di una condizione molto diffusa e condivisa soprattutto da tanti che vivono il malessere di una società basata sulla performance a tutti i costi, sulla perfezione da esibire a ogni costo, sullo stare sul primo gradino come unico obiettivo accettabile. Per questo, come scriveva Franco Bomprezzi, chiederei al giovane Schwazer di dedicare il prossimo anno alle scuole, andando a parlare con i giovani, di sport, di valori, di aspirazioni, di errori, di amicizia, di affetti.

Impariamo da Elia a mettere in ridicolo le nostre presunte idolatrie, a sorridere delle nostre pretese e dei surrogati di Dio che ci andiamo costruendo e che ci sembrano insostituibili, ma che in realtà ci rendono tristi, e tante cose si ridimensioneranno.

La fedeltà a noi stessi, a ciò che il Signore ci ha messo nel cuore e la fedeltà a lui riconosciuto come unico nostro bene, ci permette di guardare avanti senza vergognarci di nulla e senza svendere la nostra dignità. È di questa profezia che hanno bisogno la nostra umanità e la nostra chiesa, preghiamo il Signore perché mandi ancora profeti, uomini dal cuore in fiamme come Elia.