NATALE DEL SIGNORE - messa nella notte - Gv 1, 9-14
(Is 2, 1-5; Gv 1, 9-14)
È sempre suggestiva la celebrazione della mezzanotte di Natale, perché vi è qui come condensato il fascino misterioso della nostra condizione umana. Infatti per quanto possiamo essere radiosi, felici e contenti, ognuno porta nel cuore una qualche tenebra e oscurità, che sia una sofferenza, una preoccupazione, un rimpianto… cose che facciamo fatica a tenere soffocate dentro di noi.
È – proprio come dice Giovanni nel Vangelo – nel cuore della notte che irrompe la luce vera, quella che illumina ogni uomo. E già questa è una parola di speranza, perché non dice che la luce vera che è Gesù illumina i credenti, quelli bravi… ma ogni uomo. E allora in questa notte ci stiamo tutti, ma proprio tutti, ognuno col proprio fardello e con i propri pesi, le proprie tenebre e oscurità.
Siamo qui bisognosi di essere appunto illuminati e sognare di essere diversi, più buoni, più fiduciosi, più ricchi di speranza …Anch’io sono qui a confermarvi che confido che l’incontro con Gesù possa riaccendere la nostra speranza, che anche noi questa notte possiamo tornare a casa cambiati, rinati nel cuore e nel pensiero, più ricchi di fiducia, di positività e di gioia di vivere.
Ma mi rendo conto che siamo sufficientemente smaliziati per diffidare dalle facili ricette, dalle illusioni e ci domandiamo: come è possibile? a quale prezzo l’incontro col Cristo ci può cambiare?
La parola di Dio ci consegna due immagini.
La prima è propria del Vangelo di Giovanni quando racconta che «Veniva nel mondo la luce vera… venne fra i suoi… il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». Giovanni parla dell’incarnazione di Dio, della luce che viene nelle tenebre, come di una discesa.
E noi sappiamo che se uno scende, in qualche modo si abbassa. Ciò che proviene dall’alto cerca la profondità, si immerge nell’abisso. Ciò che proviene dall’alto non può che manifestarsi per un abbassamento. Il mistero dell’incarnazione dice che Dio è come attratto dalla forza di gravità dell’amore.
Per contro la nostra esperienza ci fa dire che ciò che proviene dal basso tende naturalmente verso l’alto: il nostro istinto cieco cerca la luce, il nostro inconscio aspira a dominare. Ciò che è povero vuole essere ricco: ricco di forza, di benessere, di conoscenza e di amicizia. Questa è la legge del mondo.
Noi cerchiamo sempre di elevarci, di crescere, di ingrandire il nostro sapere, le nostre competenze, le nostre ricchezze, il nostro potere … I tempi difficili dell’economia mondiale possono tra l’altro essere un motivo in più per accrescere il nostro egoismo, per ripiegarci su noi stessi e chiuderci nei nostri piccoli interessi.
Il Signore si abbassa. Questa è la strada che Gesù compie, perché a nostra volta imparando a scendere, possiamo uscire cambiati dall’incontro con lui. La nostra fede non può essere semplicemente una questione di radici, di patrimonio culturale. Non è soltanto riti e tradizioni, e nemmeno un monumento storico da difendere contro gli altri … È una luce viva e noi siamo pellegrini nella notte e ci dobbiamo aiutare sforzandoci di non gridare le nostre verità ad alta voce, ma di avere una luce dentro di noi, di bruciare e consumarci per avere luce.
Così ciascuno di noi, tutti noi possiamo scendere dal piedistallo che ci siamo costruiti, scendere nell’umile accettazione della nostra fragilità e nella condivisione con l’altro. Scendere in realtà è più difficile che salire, eppure questa è la gloria di Dio cantata dagli angeli a Betlemme: il Santo, l’Eterno, colui che tutto può, tutto vede e tutto conosce, è diventato bambino, si è fatto segno fragile nella Parola, nel pane che spezziamo, nel sacramento dell’altro. Ed è tutta la sua gloria.
E noi oggi affidiamo a questo Dio, tutte le nostre oscurità, le nostre tenebre, perché come scriveva Bonhoeffer (1944): «Dio è impotente e debole nel mondo e soltanto così rimane con noi e ci aiuta».
La seconda immagine di Natale ci viene dal profeta Isaia, un’immagine che ci può apparire un’utopia: dove mai sarà questo monte sul quale affluiranno tutte le genti? Quando mai i popoli spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance ne faranno falci; in quale parte del mondo accade che una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra… ?
Il nostro scetticismo ci fa incapaci di immaginare una storia diversa. Non abbiamo più il coraggio di sognare come Isaia, eppure questi sono quei sentieri che possono dare un futuro all’umanità. Non a caso Dossetti li chiamava «i sentieri di Isaia» e consistono nello spezzare le spade per farne aratri, il che significa trasformare la divisione e l’odio in convivenza e convivialità.
Trasformiamo la diffidenza e la paura che sono come spade appuntite, con il coraggio del dialogo e dell’ascolto dell’altro.
Su questi sentieri inaugurati da Isaia e percorsi dal Cristo, ci possiamo stare tutti: sia chi è sicuro delle proprie convinzioni, come chi è attraversato dai dubbi; chi è impegnato nella Chiesa e chi sta esitante sulla soglia …
A noi discepoli di Gesù, forse come non mai nella storia dell’umanità, è chiesto di avere a cuore la costruzione di un mondo più giusto e unito. Il Dio bambino si pone in mezzo alle creature, sia per dirci la nostra dignità di figli amati, quanto per indicarci la nostra responsabilità di fratelli solidali tra loro.
Questa nostra Chiesa che talvolta ci appare appesantita da troppi orpelli e nostalgicamente rivolta al passato, ricca di ricordi e di storia, tentata dai compromessi col potere e a volte incapace di generare al Vangelo nuovi figli, può tornare ad essere feconda, se impara da Cristo il coraggio di scendere, di abbassarsi e di farsi voce degli ultimi, dei poveri, di quell’umanità che arranca e che fa fatica.
Chiediamo al Signore di essere una Chiesa così, che sa scendere, che sa accogliere, che sa abbracciare dello stesso abbraccio di Dio per il quale non c’è nessuno che sia troppo distante per essere amato, perché la luce vera continua a illuminare ogni uomo.