V DOPO L’EPIFANIA - Gv 4, 46-54


(Is 66, 18-22; Rm 4, 13-17; Gv 4, 46-54)

Nelle parole del funzionario che si rivolge a Gesù supplicandolo di scendere a Cafarnao a guarire il figlio, ascoltiamo il grido di tutti quei padri e di tutte quelle madri che nel mondo chiedono a Dio la vita, la guarigione, il miracolo, per i loro figli. Cosa c’è di più irresistibile della supplica di un genitore che teme per la vita di un figlio? Tocchiamo con mano il dramma di una fede che crede in Dio, ma che al tempo stesso domanda un segno, un miracolo.

Ma anche se il Signore facesse un miracolo ogni volta che lo invochiamo, siamo sicuri che ci sarebbe più fede nel mondo? Occorrono davvero tanti segni perché si possa credere?

Leggendo con attenzione il vangelo di oggi ci rendiamo che se a prima vista appare ai nostri occhi la guarigione del ragazzo, in realtà la guarigione vera è quella del padre, il miracolo avviene in questo genitore che all’inizio prega Gesù di scendere a guarire il bambino «che stava per morire» (v.47). Poi ancora al versetto successivo lo supplica: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia».

Lui abita a Cafarnao e Gesù è tornato a Cana di Galilea e tra le due cittadine ci sono 26 km di distanza, la richiesta che questo padre fa a Gesù è di «scendere», perché appunto si tratta di scendere a Cafarnao, una discesa che non è solo geografica, ma che dice la condiscendenza di Dio: Gesù, il figlio amato dal Padre scende dal cielo per venire incontro all’uomo, come dice Gesù a Nicodemo «Nessuno è mai salito al cielo se non Colui che è disceso dal cielo» (3,13), non è lui infatti il «pane disceso dal cielo» (6,51)?

Dunque è il verbo che dice il mistero del Cristo e la sua discesa dal Padre a noi per prendersi cura di noi, ma la guarigione del figlio non viene descritta, non ci è dato nemmeno di verificarla, solo ne veniamo a conoscenza dalla parola di Gesù che dice: tuo figlio vive, che è confermata anche dai servi: Tuo figlio vive.

Gesù non lo vede nemmeno il figlio del funzionario, perché quello che conta è ciò che si dice al v.50: Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. E questo è il punto. Come fai a credere a Gesù che ti dice: tuo figlio vive? Il padre ha appena detto che il bambino sta per morire, Gesù dice una parola contro l’evidenza e tu ci credi!

Quando invece appunto nelle situazioni più difficili cerchiamo il miracolo, e a ragione Gesù dice: Se non vedete segni e prodigi non credete! Chiediamo segni, vogliamo prodigi… l’uomo è attratto spontaneamente dal meraviglioso e vorrebbe certo fondare la propria fede su fenomeni tangibili.

Il segno esiste come indicatore di una mèta, non è il traguardo e noi crediamo che i miracoli ci diano vita, salute, prosperità… ma se anche ci fosse dato di assistere a un qualche miracolo, non dimentichiamo che sono dei segni che indicano un oltre. Quel bambino speriamo che sia cresciuto e sia vissuto a lungo, ma prima o poi ha dovuto fare i conti con la malattia, la sofferenza e la morte.

Noi invece sembriamo come quelli che vogliono accumulare tutta la segnaletica stradale, anzichè andare nella direzione indicata dal segno.

Mentre il padre che si è fidato della parola di Gesù: quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto, allora… si mise in cammino!

Quell’uomo si fida della parola di Gesù e così è lui che adesso «scende», senza altra garanzia che la parola del Cristo. Aveva chiesto che fosse il Signore a scendere, invece è lui che si mette in cammino con una fiducia che prima non aveva.

La fede è un cammino di povertà perché quest’uomo non ha nient’altro che questa parola per sostenerlo e guidarlo. Tutto il cammino della sua vita è sospeso alla parola di Cristo.

Non è stato così anche il cammino di Abramo come ci ricordava Paolo nella lettera ai Romani? Abramo non ha chiesto segni a Dio, ha obbedito alla sua Parola ed è la fiducia che Abramo ha riposto nella parola che lo ha messo in cammino.

Anche il fatto che il funzionario reale si sia staccato dal figlio morente per andare da Gesù – e la distanza fra Cafarnao e Cana di Galilea corrisponde a una giornata di cammino – questo staccarsi dal figlio per lui deve essere stato doloroso come per Abramo il sacrificio di Isacco, ma è stato l’atto di fede che gli ha permesso di ritrovare suo figlio vivo e sano.

Questo padre, sciogliendo le proprie mani dalla stretta con cui teneva il figlio morente per andare a presentarle vuote e impotenti a Gesù, ha saputo trasmettere al figlio e a tutta la sua famiglia la fede nella vita. Grazie alla fede in Gesù ha ritrovato il senso della sua paternità. Cos’è un padre se non chi genera il figlio alla vita?

Per Giovanni i segni non sono «miracoli per credere» – cioè segni che portano alla fede-, ma «segni della fede» e cioè segni visti e accolti dalla fede. Chi crede vede i segni della fede.

C’è un dettaglio della narrazione che è curioso. È quando il padre, scendendo a Cafarnao incontra i servi che gli salgono incontro, s’informa su un particolare che un poco sorprende: «A che ora ha cominciato a stare bene?». Segue quindi la verifica dell’esatta corrispondenza tra il momento della parola di Gesù e lo star meglio del bambino. Sembra un particolare da nulla, ma così Giovanni mette in evidenza più che la guarigione in quanto tale, la potenza della parola di Gesù. Fidati della sua parola e vedrai! Credo che tutti noi abbiamo sperimentato come nella vita ci siano coincidenze che non sono semplicemente frutto del caso, delle opportunità, ma sono il segno tangibile di una parola come quella del Cristo che opera senza troppa pubblicità e senza spreco di parole.

Fidandoci della sua Parola impariamo anche noi a «scendere» come ha fatto il funzionario del re, a scendere e non a salire nel cercare visioni, apparizioni, effetti che ci convincano di più, ma a scendere credendo nella parola del Vangelo nel cuore del dolore del mondo, scendere nelle contraddizioni e negli anfratti disumani delle nostre città, resi partecipi di quell’umanità che in Siria, piuttosto che in Sudan, continua a piangere la morte, l’ingiustizia, l’oppressione.

E più scendiamo, più si realizza la profezia di Isaia nella prima lettura con la quale conclude il suo libro. È una visione che abbraccia il dolore del mondo: Io verrò, dice il Signore, a radunare tutte le genti e tutte le lingue… porrò in essi un segno, e qual è questo segno? Manderò i loro superstiti … segue un elenco per noi incomprensibile che non offre riferimenti geografici a noi chiari, ma che abbracciano il mondo conosciuto di allora a partire dall’occidente [ovvero la Spagna e le isole del Mediterraneo (Tarsis), la costa africana del mar Rosso (Put e Lud), l’estremo nord delle coste del mar Nero (Mesec, Ros e Tubal) e infine la Grecia (Iavan)].

La discesa nella condivisione, nella cura… questi sono i segni della fede, perché come ci ricorda Paolo: anche se avessi una fede grande da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, l’amore… non sono nulla (1Cor 13). I segni della fede sono il nostro servizio all’uomo, il costruire la fraternità umana a partire dal più povero. I segni della fede sono il perdono, la misericordia, la pazienza.

Ci rendiamo conto allora che non sarà il moltiplicarsi dei miracoli a far crescere la fede nel mondo, piuttosto chiediamo al Signore di essere noi segni di amore, di accoglienza, di condivisione, perché sono questi i segni della fede che costruiscono come diceva Isaia la fraternità umana.