PENTECOSTE - Gv 14, 15-20
Ascoltando le parole della Scrittura che ci parlano del dono dello Spirito, del soffio vitale sceso sui discepoli di Gesù, non posso non pensare alle drammatiche immagini in cui abbiamo visto George Floyd, il 46enne afroamericano di Minneapolis mentre viene schiacciato a terra dal poliziotto che gli preme il ginocchio sulla gola, gridare con tutte le sue forze: Non posso respirare (I can’t breathe)
Non posso respirare è il grido di chi urla il suo estremo bisogno d’aria, di ossigeno, di vita! È la preghiera disperata di chi sente che la vita gli sta scivolando via, come un soffio che se ne va.
Non posso respirare. E tu, uomo di un Paese che vorrebbe essere il leader del mondo, come fai a non ascoltare un grido così? Come puoi voltare il tuo volto dall’altra parte, mentre col tuo peso stai schiacciando la vita di una persona?
Poteva accadere così anche all’esperienza dei discepoli che avevano seguito Gesù? Potevano stare chiusi nel cenacolo ad aspettare che la paura, il disamore, la distanza uccidessero, facessero mancare il fiato per così dire, alla loro esperienza con Gesù?
Non solo: poteva il Signore non ascoltare il loro grido, la loro preghiera?
Non che non poteva, perché per questo era venuto, questo era il motivo per cui si è imbarcato nella sua avventura umana.
Noi celebriamo la Pasqua, celebriamo il Natale, così celebriamo altri passaggi importanti della vita del Cristo, ma se ci domandiamo: per quale motivo il Signore è venuto?
La risposta del catechismo è: per salvarci. Ok, e pensiamo alla salvezza eterna, alla redenzione. Ma adesso, a noi che siamo qui, come i discepoli nel Cenacolo e che abbiamo bisogno di tirare il fiato, necessitiamo di una boccata d’ossigeno, cosa ci dona il Signore?
Dal libro degli Atti, scritto da Luca e dal Vangelo di Giovanni veniamo a sapere che i discepoli a Pentecoste comprendono finalmente lo scopo della vita di Gesù, che non è stato quello del successo ad ogni costo, della vittoria sulla concorrenza, del riscatto dai suoi nemici… nulla di tutto ciò ha fatto il Cristo.
Decisivo è stato il dono dello Spirito.
Luca lo racconta a modo suo, scrivendo che il dono viene nella pienezza del tempo, cinquanta giorni dopo Pasqua quando gli ebrei celebrano il dono della Torah, quella che noi chiamiamo Legge, che sono i primi cinque libri della Bibbia, per dire che la pienezza dei doni di Dio che vengono da lontano, dalla storia di chi ci ha preceduto, culminano col dono dello Spirito di Dio che Gesù effonde sui suoi amici.
Giovanni dice che questo dono è stato fatto fin dal giorno di Pasqua…. Anzi già sulla croce dal fianco di Cristo uscì sangue ed acqua! Già quando era dato per morto, il Signore ha fatto una cosa che solo i vivi possono fare, fare dono dello Spirito.
Uno potrebbe dire: ma allora dicono due cose diverse! Sì apparentemente sembrano due cose inconciliabili, ma in realtà Luca e Giovanni vogliono raccontare qualcosa di più di un fatto di cronaca, vogliono raccontare il condensato della loro esperienza con Cristo e dirci che Gesù è venuto a donare la pienezza del dono Dio, a farci dono del suo Spirito.
Dalla creazione alla Pentecoste si snoda una sola storia d’amore che si rivela in Gesù, investito della presenza e dell’amore di Dio così da effonderlo in noi grazie al dono dello Spirito che ci rende figli di Dio e fratelli tra di noi grazie allo stesso amore che è la vita di Gesù in Dio.
Ora alla luce di queste considerazione la Pentecoste non è un fatto concluso, chiuso dentro il registro della cronaca: lo Spirito è un dono perenne sempre pronto a rinnovarsi, come ebbe a dire Giovanni XXIII quando parlò del Concilio come “nuova Pentecoste”, perché è un dono inesauribile.
All’umanità, alla chiesa, ai suoi figli che gridano: Non riesco a respirare, il dono di Dio non viene mai meno.
Giustamente la fede è incentrata sulla Pasqua, ma come non sarebbe concepibile una Pasqua senza la crocifissione e morte di Gesù, così non sarebbe pensabile una fede senza Pentecoste, che purtroppo nel vissuto delle nostre comunità e della nostra spiritualità è ancora considerata una festa accessoria. Pentecoste è invece qualcosa che struttura la vita della chiesa, anzi ne è l’anima.
Siamo abituati a considerare la Pentecoste un fatto cenacolare, Pentecoste accadde sì in un cenacolo, ma per sbalzare i discepoli fuori nelle strade del mondo grazie alla forza del vento impetuoso dello Spirito che è lo stesso soffio del Risorto sui suoi, quel respiro e alito di vita di cui c’è bisogno quanto e più del pane!
La chiesa è veramente tale quando e in quanto è spinta dallo Spirito alle genti, alla stessa maniera in cui Gesù dice di essere stato mandato dal Padre, o di essere venuto, non i sani ma per i malati, non per i giusti ma per i peccatori.
Allora torniamo a dirci che Pentecoste non è un’appendice alla Pasqua, ma il suo compimento e la sua pienezza, e quindi la chiesa di Pentecoste è il suo naturale modo di essere, vale a dire chiesa in uscita, come ci ripete papa Francesco, chiesa in missione.
Quando si parla di missione, cominciamo a pensare all’organizzazione di strutture, alla raccolta di fondi, alla necessità di costruire edifici, al personale da inviare… ma se impariamo davvero da Pentecoste che il dono più importante per cui Gesù è venuto è il dono del suo Spirito, dovremmo scegliere un modo di vivere la missione che sappia accogliere il grido dell’umanità: Non riesco a respirare per donare il soffio vitale che viene da Gesù.
In questo periodo di pandemia anche l’attività della Chiesa si è in qualche modo fermata, si sono interrotti il culto e la catechesi, gli sportelli dei vari servizi, l’oratorio…. ma lo Spirito non è stato imprigionato da niente.
L’organizzazione ha avuto una battuta d’arresto, l’impalcatura si è rivelata per certi aspetti anche eccessiva, ed è come se si fosse operata una sorta di liberazione e di alleggerimento. Questo forse può aiutarci a comprendere che dobbiamo ridare il primato al respiro, più che al fare, all’agire.
Diamo il posto necessario allo spirituale, che come dice il termine stesso, attinge alle cose dello Spirito.
E così considerare una cosa che ci rimette tutti in discussione: Potremmo arrivare a riconoscere che l’efficienza corrompe la testimonianza cristiana più sottilmente del potere [1].
Crediamo davvero con la nostra efficienza di dare respiro al mondo? Davvero con le nostre strutture e organizzazioni diamo fiato alla storia umana?
Dio ha scelto il dono dello Spirito per non violentare lo spazio umano. Il dono dello Spirito è discreto, anche se l’esperienza che ne facciamo è forte come il vento e il fuoco.
Cosa viene a fare il dono dello Spirito? Più che a fare delle cose fine a sé stesse, a rispondere alla nostra sete di vita, di respiro, ad aiutarci a vivere la nostra vita di esseri umani nell’amore e nella giustizia, nella condivisione e nella fraternità.
Questi sono i caratteri della comunità che esce dal Cenacolo: si vogliono bene, dice Luca negli Atti, non tengono per sé stessi le loro cose, condividono tutto nella preghiera e nelle proprietà.
In un’umanità che sperimenta la precarietà, la mancanza di lavoro, che si misura con le incertezze del futuro, che è vittima della violenza di chi ha potere, dove ciascuno è tentato di chiudersi asfitticamente in sé stesso, di fare giustizia da sé, c’è bisogno di una chiesa che più che sull’efficienza dei denari e del potere, sappia infondere il dono dello Spirito. Quello Spirito che, come scrive Paolo, dona amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé [2].
Detto in altre parole a me sembra che la Pentecoste sia un’opportunità che il Signore dona ai suoi a prescindere dalle loro capacità, dai risultati che potranno ottenere… è un dono quello di Gesù che permette che la sua vita non rimanga un ricordo del passato, ma una possibilità attuale e viva per noi oggi.
Cosa rispondiamo a un’umanità che grida: Non riesco a respirare! Gli daremo il frutto della nostra efficienza, gli daremo le nostre cose, i nostri oggetti, i nostri denari? O, grazie al dono dello Spirito, faremo dono dell’amore e della vita, come ha fatto Gesù?
(Atti 2,1-11; 1Cor 12,1-11; Gv14,15-20)
[1] I. Illich, Celebrare la consapevolezza, p.149
[2] Galati 5, 22