DOMENICA CHE PRECEDE IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE (29 agosto) - Mt 18, 1-10
(Mt 18, 1-10)
Polvere, sangue, paura: sono queste le immagini che da alcune settimane ci accompagnano. In questi giorni in cui un terribile terremoto che ha colpito il nostro Paese, si sono imposte ai nostri sguardi le immagini di bambine e di bambini coperti di polvere e di sangue mentre vengono estratti dalle macerie delle loro case, di quelle case dove un piccolo trova sicurezza, anzi dovrebbe trovare sicurezza, rifugio e protezione.
Così come settimana scorsa siamo stati investiti dall’immagine del piccolo Omran di cinque anni seduto sull’ambulanza di Aleppo, estratto vivo dalle macerie della sua casa appena bombardata e che se ne stava con una dignità sconvolgente senza nemmeno piangere, incapace di farsi una ragione del fatto che un mondo di adulti che dovrebbe impegnarsi per la sua vita, per il suo futuro, in realtà si ingegna a dare morte, sofferenza e dolore.
Di scandali nei confronti dei bambini ce ne sono fin troppi, al punto che se dovessimo prendere alla lettera le paradossali parole di Gesù, dovremmo avere un mondo pieno di adulti monchi e zoppi, e non ci sarebbero sufficienti macine da mulino da mettere al collo degli operatori del male, dei mercanti d’armi, dei trafficanti di esseri umani, dei corrotti… per farli inabissare nel profondo del mare!
Stiamo parlando di emozioni, di quelle emozioni suscitate dalla sofferenza terribile cui vengono sottoposti i bambini, di quei bambini che vorremmo proteggere, ai quali vorremmo offrire un riparo da tanto dolore, ma sono anche quelle emozioni che pensiamo sterili perché difficilmente riusciamo a farle diventare concretezza, azione. Eppure l’emozione ha una sua forza che se non può modificare il corso degli eventi – almeno nell’immediato – tuttavia può cambiare, può spostare le cose.
Quando nel vangelo, Gesù prende un bambino e lo mette in mezzo ai dodici, compie un gesto di grande carica emotiva per rispondere alla logica razionale intorno alla quale stanno discutendo i suoi amici e che è quella del prestigio, del potere, della gara continua che facciamo gli uni contro gli altri.
Gesù non sta tenendo una lezione sull’infanzia o sui diritti dei bambini, ma risponde sul piano emotivo a degli adulti che non sono capaci se non di scannarsi intorno alla domanda: Chi è il più grande?
E sì che al cap. 16 a Cesarea di Filippo Gesù aveva detto a Simone: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa (16,18). E con questo si doveva sapere chi comandava, la questione doveva essere chiara una volta per tutte, ma siccome è vero che la competizione non finisce mai, la volontà di emergere è inesauribile, così come il voler contare più degli altri, il voler comandare e dominare, e pare questa una condizione umana imprescindibile, ecco che arrivati a Cafarnao, devono averci pensato un bel po’ lungo la strada, qualcuno, per pudore Matteo non dice chi pone la domanda, che nel vangelo di Luca viene detta ancor più esplicitamente: «Nacque poi una discussione tra loro, chi di loro fosse più grande (9,46).
Che è una questione appunto, razionale, alla quale Gesù risponde con un gesto dalla forte carica emotiva, ma capace di produrre un cambiamento razionale e teologico.
Di fronte ai piccoli estratti dalle macerie del terremoto, di fronte al piccolo Omran seduta sull’ambulanza di Aleppo ci commuoviamo, ma poi lasciamo che quell’emozione se ne vada, mentre dovremmo imparare dal Cristo a farla diventare fonte di cambiamento, come è stato per i dodici.
Un po’ anche perché guardiamo con grande sospetto alla vita emozionale, consideriamo l’emozione un abbaglio, uno stato d’animo irrazionale che scalda il cuore ma pregiudica la capacità di giudizio e di comprensione. Ma è solo questo l’emozione? La grandezza e la maturità dell’uomo non stanno forse nel cercare la concordanza e la conciliazione tra vita razionale e vita emotiva? La nostra capacità di cambiamento sta nel tenere insieme «Le emozioni come metafora del cuore, delle ragioni del cuore, e il pensiero come emblema della ragione calcolante e astratta; le emozioni come anima e il pensiero come intelligenza» (E. Borgna).
È quello che fa Gesù con Dodici: alla loro preoccupazione di organizzare relazioni fondate sul potere, oppone un gesto dalla forte carica emotiva prendendo un bambino e mettendoselo vicino.
È un gesto che fa compiere uno spostamento dalla testa al cuore: osservi il figlio di Dio che mette al centro un bambino e sei costretto nell’emozione a riconsiderare le tue priorità, e così le tue ansie, le tue paturnie, le tue bramosie.
L’emozione ci restituisce a quella dimensione di fragilità che ci appartiene, perché l’emozione è fragile e forse per questo la svalutiamo, perché distoglie dall’onnipotenza che tanto abbaglia il mondo adulto.
Senza questa consapevolezza il rischio di dare scandalo è altissimo. Scandalizziamo i bambini nelle forme drammatiche del lavoro minorile, dello sfruttamento sessuale, nel farli diventare piccoli soldati… ma li scandalizziamo anche ogni giorno con l’amore per il potere, con la corruzione, con la prevaricazione.
I discepoli sono stati capaci cambiamento di mentalità, passando per questa emozione. Può essere un bambino di Cafarnao, di Aleppo o di Milano, non importa di dove, ma l’emozione di mettere al centro un bambino è metafora del cuore, delle ragioni del cuore che poste accanto alle parole di Gesù, emblema della ragione e del pensiero come intelligenza, costituiscono la capacità di conversione e di cambiamento.
Ma non è che separiamo le emozioni e la razionalità, perché in definitiva non vogliamo cambiare mai? Eppure è solo una profonda riconciliazione e concordanza tra emozioni e pensieri ad essere feconda di futuro. Quando la vita emozionale non influenza più il pensiero, questo non ha più dinamismo e diventa rigidità pietrificata, schematicità astratta e non si nutre più di linfa vitale.
Mi rendo conto che rimango a un livello ancora abbozzato perché le emozioni sono un arcipelago, ci sono emozioni che curano, emozioni ferite, emozioni che gridano nel dolore, emozioni indicibili… fino a sconfinare nell’angoscia, nell’ansia e nella paura. Sarebbe già importante riconoscere alle emozioni il diritto di cittadinanza nella nostra dignità di persone, accompagniamole con l’intelligenza del pensiero perché per questa via oltre ad ottenere quei cambiamenti che tanto avremmo voluto e che non siamo mai riusciti a ottenere con la forza di volontà, faremo anche un’altra scoperta. La stessa scoperta verso la quale Gesù accompagna i suoi ed è una scoperta che deve essere suonata un pochino eretica, perché c’è un cambiamento anche nei confronti di Dio.
Nella battuta finale del passo di oggi il Signore dice: «Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (v.10). L’espressione deve essere parsa teologicamente assai ardita perché non va da sé che nell’ebraismo si possa vedere il volto di Dio, neppure da parte degli angeli (in Isaia 6,2 perfino i serafini si coprono la faccia con le ali)!
Espressione che va di pari passo con quella precedente, quando Gesù riconosce ai discepoli che Chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.
Tra Dio e i bambini sussiste una relazione che ci sorprende, così come tra Gesù e i bambini, ma non perché il Signore idealizzi l’infanzia, non si tratta di «tornare ad essere bambini» Gesù non esalta una presunta innocenza, quanto piuttosto chiede di farsi piccolo (lett. tapeinoo), di umiliarsi, di diventare “tapino”, come lui stesso ha fatto e ne ha dato l’esempio. Altro che essere più grande, essere mega! Chiunque si farà piccolo come questo bambino costui è il più grande.
Gesù è presente nella storia con l’atteggiamento di un bambino, il vangelo stesso è cosa piccola, è davvero poco importante nelle logiche del potere di questo mondo, eppure è lì che sta la forza del cambiamento. È sempre negli occhi di un piccolo che si riflette il volto di Dio, non lo trovi nello sguardo del superbo, dell’arrogante, del violento, del presuntuoso, ma in quell’inutile perdita di tempo e di prestigio che è il donarsi. Diceva papa Francesco ai giovani:
«Oggi l’umanità ha bisogno di uomini e di donne, e in modo particolare di giovani, che non vogliono vivere la propria vita “a metà”, giovani pronti a spendere la vita nel servizio gratuito ai fratelli più poveri e più deboli, a imitazione di Cristo, che ha donato tutto sé stesso per la nostra salvezza. Di fronte al male, alla sofferenza, al peccato, l’unica risposta possibile per il discepolo di Gesù è il dono di sé, anche della vita, a imitazione di Cristo; è l’atteggiamento del servizio. Se uno – che si dice cristiano – non vive per servire, non serve per vivere. Con la sua vita rinnega Gesù Cristo» (Francesco, Cracovia 29 luglio, Via Crucis).
Ed è questa la strada per continuare con coraggio anzitutto il nostro cambiamento, la nostra conversione verso il farci piccoli, secondo la preziosa eredità di Carlo Maria Martini che raccogliamo a quattro anni di distanza dalla morte – mercoledì 31 agosto – e che nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme diceva: «Chi ha coraggio rischia di sbagliare. Ma la cosa più importante è che solo gli audaci cambiano il mondo rendendolo migliore. Ai coraggiosi sono concessi amici sinceri. Essi imparano che la potenza viene dalle mani di Dio».