V DI QUARESIMA o Domenica di Lazzaro - Gv 11, 1-53
È un clima ad alta tensione quello che registriamo nella pagina di oggi, da una parte Gesù compie un segno straordinario richiamando alla vita l’amico Lazzaro e dall’altra abbiamo sentito proprio nelle ultime righe quello che dice il sommo sacerdote Caifa: Voi non capite nulla… è conveniente che muoia uno solo e non vada in rovina la nazione intera.
La tensione tra la vita e la morte, che è poi la tensione che respiriamo ormai ogni giorno.
Lo possiamo capire perché tutti abbiamo bisogno di sicurezze, soprattutto in un mondo come quello odierno, caratterizzato da rapidi cambiamenti in ambito economico e sociale, da incertezze riguardo al futuro e dal progressivo indebolimento dei sistemi tradizionali di valore.
L’insicurezza genera umanissimi timori che tuttavia, laddove si cede alla tentazione di rafforzare identità indebolite o sempre meno consistenti identificando nemici esterni funzionali al compattarsi contro qualcosa o qualcuno, possono non solo trasformarsi in paure dai contorni decisamente irrazionali, ma assumere la necessità della violenza come risolutiva.
Ed è quasi sempre più violento chi è pieno di incertezze e in preda a paure. Non è la paura a mettere sulla bocca a Caifa, sommo sacerdote, le parole agghiaccianti: è conveniente che muoia uno? Per quanto sia ammantata di giustificazioni è sempre una violenza che porta alla morte. Una violenza che sembra dirimere la questione e risolvere i problemi, al prezzo della vita degli altri.
In maniera ingenua e cinica gli antichi avevano sintetizzato così questa logica: mors tua vita mea. Questa è la logica che ci riguarda, senza scomodare Girard e la sua teoria del capro espiatorio e della violenza mimetica, qui siamo dinnanzi alla presunta necessità di assumere la violenza come dato, come acquisita dalla storia umana, come qualcosa di imprescindibile.
Dall’altra parte Gesù introduce nella storia del mondo una prospettiva altra, lui ‘lavora’ per la vita, tutto ciò che dice e fa è perché le persone possano vivere, possano far fiorire le loro esistenze, così spesso schiacciate e oppresse.
È talmente preso da questa passione per la vita che vede la morte come un ostacolo da superare e non come l’ultima parola sulla condizione umana, al punto che dice di sé: Io sono la risurrezione e la vita.
Quella di Cristo non è una dottrina sulla vita, sulla non violenza… è una precisa assunzione di responsabilità di fronte alla realtà. Cosa significa Io sono la vita se non che Dio è vita, il Padre è vita, il Figlio è vita… Chiunque vive e crede in me non morirà in eterno.
È dunque una logica diversa che ci riguarda e ci coinvolge. Infatti Gesù poteva fare tutto da solo. Invece, giunto davanti al sepolcro di Lazzaro, chiede ai presenti di togliere la pietra che sigilla la tomba e poi, secondo particolare, quando sempre Gesù ordina ai presenti che vedono Lazzaro uscire dal sepolcro avvolto dalle bende: Liberatelo e lasciatelo andare.
Sono particolari sorprendenti perché Gesù che richiama in vita un morto, non poteva forse spostare una pietra e sciogliere delle bende? Sarebbe stato tutto ancor più spettacolare.
È come se Gesù rimettendo Lazzaro sulle strade del mondo, rimandasse ciascuno di noi alla responsabilità di lavorare per la vita, perché la storia è piena di pietre poste davanti ai cuori e alle menti, la storia è attorcigliata in bende che nel tempo continuano a legare situazioni personali, culturali, sociali in vincoli di incapacità, di schiavitù e di paura.
Cosa sono queste bende? Appunto ciò che lega e condiziona la libertà di un pensiero altro, le bende che non osando le strade del dialogo e quindi dell’apertura, si stringono come lacci che impediscono l’approfondimento e la mediazione. Le bende che paralizzano e ingessano le situazioni nelle tensioni, nei pregiudizi, nelle paure e abbiamo visto come le paure siano foriere di violenza e di morte.
Gesù rimanda ciascuno di noi ad assumere la responsabilità di smuovere quelle pietre che ingombrano il cammino, che vengono sovente scagliate contro gli altri, che vengono pensate come unica soluzione dei conflitti, quasi fossero l’unica via d’uscita.
Ma io, tu… la nostra comunità civile e la comunità ecclesiale, lavoriamo per la vita? Cosa facciamo perché vengano rimosse le pietre o lasciamo che vengano scagliate? Cosa facciamo perché si sleghino le bende che tengono l’umanità bloccata e paralizzata nella logica della violenza e della morte?
A parlare oggi di disarmo, di non violenza, di critica all’incremento delle spese per le armi… ci si sente dire: Voi non capite nulla! Guarda caso, sono le stesse parole di Caifa, sommo sacerdote. Ma sono le parole di un sommo sacerdote o del ‘maschio alfa’ della tribù che frustrato deve ritagliare la sua conquista e la sua vittoria schiacciando il più debole?
Non rassegniamoci davvero a ridurre il Vangelo di Cristo e per il quale Cristo ha dato la sua vita a utopia. Non è forse proprio la sua inesauribile energia profusa nell’incontro e nel dialogo che ha smascherato le ipocrisie, l’inganno e la falsità e la violenza come risoluzione dei conflitti?
Duemila anni di Vangelo e che sbandieriamo come valori dell’occidente, ci ridurrebbero a contraddire profondamente in radice ciò che ha dato vita alla cultura europea, ovverosia al riconoscimento della capacità della ragione e della superiorità del pensiero rispetto a quella dell’istinto e della violenza che negano l’altro in nome della sua presunta indegnità?
Non so come ne usciremo, ma essere per la vita, significa credere inflessibilmente nel principio del dialogo, dialogo che va offerto anche quando altri vorrebbero contraddirlo, perché lì è la vera forza.
Salvo che qualcuno pensi che solo la “conversione dell’altro con la forza” ai nostri principi sia una via percorribile. Ma allora assisteremmo non all’autunno, ma a un profondo inverno del genere umano.
«L’unica scelta che oggi abbiamo, se vogliamo continuare a vivere su questo pianeta, è quella di “sconfiggere la guerra” per sempre… Altrimenti è la fine per l’Homo Sapiens che purtroppo è diventato l’Homo Demens» (Alex Zanotelli).
Gesù ci rimanda ad un’assunzione di responsabilità di fronte alla vita, scegliendo da che parte stare. L’equidistanza non è neutralità, è vigliaccheria, è volgere la faccia dall’altra parte, è il rifiuto di assumersi la propria capacità di decidersi per la vita. Ricordiamo che se è vero che una dittatura e un tiranno danno vita a un popolo di schiavi, è anche vero che è un popolo di schiavi a dar vita e spazio alla dittatura e al tiranno.
Che il Signore ascolti la nostra voce e la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione, come ha ascoltato la voce del suo popolo nel deserto e ci faccia uscire dalla schiavitù della violenza.
«Per superare l’idolo dell’odio e della violenza, diceva Martini in un’intervista, è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di sé stessi, quando è riferita esclusivamente al sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa.
Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace.[1]»
(Dt 26,5-11; Gv 11,1-53)
[1] Card. Martini, “Ogni popolo guardi il dolore dell’altro e la pace sarà vicina” Corriere della sera 27.08.2003.