II DI QUARESIMA o Domenica della Samaritana - Gv 4, 5-42
È superfluo dire che siamo di fronte a una pagina «ad alta intensità» (Gv 4, 5-42) che richiederebbe molto più tempo per essere approfondita, per cui cogliamo almeno due direttrici del discorso e cerchiamo di vedere cosa suggerisce a noi che di donne samaritane non ne vediamo l’ombra e che di pozzi ormai ne veniamo a conoscenza solo dall’archeologia.
La prima cosa che appare ad uno sguardo che abbraccia l’insieme della pagina evangelica è che Gesù all’inizio del racconto dialoga con una singola donna samaritana, ma alla conclusione a seguirlo è un popolo intero! È l’ultima battuta del testo, quando i samaritani dicono alla donna: Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo!
I samaritani erano – e lo sono ancora oggi quelle poche centinaia che insistono sul monte Garizim – una popolazione «meticcia» dal punto di vista etnico. Erano un popolo nato dall’incrocio di Ebrei e di Assiri che arrivarono su questo territorio nel 722 a. C., non solo ma erano anche considerati eretici, accettavano solo i primi cinque libri della Bibbia e si erano costruiti un loro tempio per segnare la distanza dal popolo ebraico e da Gerusalemme.
Questa è la prima operazione che fa Gesù: quella di portare «dentro» coloro che erano tenuti fuori. I samaritani da eretici, scomunicati e quant’altro credono in Gesù. E i discepoli sono sconcertati perché pensano: il Dio in cui crediamo è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, come certamente è il Dio di Sarah, di Rebecca e di Rachele… ma non può essere anche il Dio dei Samaritani, perché allora sarebbe anche il Dio degli egiziani… degli altri popoli!
Che a ben guardare è una questione quanto mai attuale: possiamo dire che Dio è il Dio degli ebrei, è il Dio dei cristiani, ma che è anche il Dio dei musulmani, il Dio dei buddisti? Gesù annuncia un Dio che cancella i confini, che li travalica per condurre a termine quella promessa che era già scritta nella Prima alleanza: Dio è il Padre di tutti i popoli e non solo di qualcuno che anche Paolo confermava nella seconda lettura: “Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,7).
È difficile per noi da accettare questa rivelazione, come lo era per la samaritana che è attaccata alla sua storia, alla storia del suo popolo, al fatto che sul suo territorio ci sia questo importantissimo pozzo di Giacobbe, che è tale perché dà acqua, ma anche perché è il pozzo del padre Giacobbe.
Riportato a noi oggi significa che abbiamo giustamente bisogno di un’identità e la cerchiamo nella storia, nel passato, se abbiamo la fortuna di conoscere un passato e una storia. Ma Gesù ricorda alla Samaritana che la nostra vera identità non la troviamo soltanto nella storia, nei pozzi, nei confini, nelle culture, nelle lingue, non la troviamo lì, ma la troviamo in Dio.
In un Dio che è Spirito, ovvero una realtà viva, non un concetto, un’idea… Gesù non a caso ricorre a un’immagine dinamica: Chi berrà l’acqua che io gli darò non avrà sete, mai più, usa un’immagine in movimento, una fonte che zampilla in eterno, e succederà alla Samaritana stessa di diventare acqua viva anche se lei ancora non lo può supporre e tantomeno immaginare. Ma accadrà proprio a lei. Proprio lei che è un’assetata, che ha bisogno di acqua, diventerà fonte per i suoi concittadini. Chi ha veramente sete di Dio, non è soltanto un assetato, ma è fonte: aiuta gli altri a scoprire Dio. Passa dalla religione dei padri alla rivelazione del Padre. Dio è l’unico che merita di essere chiamato Padre.
Il secondo passaggio, che è quello che possiamo considerare il vertice della rivelazione, avviene quando Gesù dice: Credimi donna viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre… viene l’ora in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità.
Dio è oltre i santuari e non dentro.
Praticamente Gesù dice che non c’è più un luogo santo, un monte santo, una città santa, una sede santa, una terra santa. Soltanto Dio è santo, soltanto il suo Spirito è Santo.
Ma a chi rivela Gesù questa realtà straordinaria – notate questa cosa elementare – a chi affida questa rivelazione che è una delle parole più alte su Dio e sul culto?
A una donna e a una donna samaritana.
Perché non l’ha consegnata ai suoi discepoli, tutti uomini, che allora si consideravano (come molti si considerano ancora) interlocutori privilegiati di Dio?
Perché l’ha affidata a una donna qualunque, per di più straniera, eretica, una perfetta sconosciuta (neanche il suo nome ci viene trasmesso) e nemmeno a una donna ebrea, a Maria sua madre per esempio, oppure a Maria di Magdala, a Marta, comunque a qualcuno di affidabile, ma l’ha voluta consegnare a una samaritana?
Questo ci deve far riflettere, ci deve far pensare e dilatare la nostra mente e il nostro cuore, perché Gesù ci rivela che Dio non è ostaggio del suo popolo. Dio si affranca da chi lo vorrebbe addomesticare, legandolo a un monte, a un santuario, a una città, a una civiltà, a una lingua. Dio non rispetta le nostre frontiere e travalica i nostri confini, a cominciare da quelli religiosi.
E Gesù lo rivela alla donna Samaritana in maniera molto semplice e lineare: anzitutto varcando i confini di una terra santa, entrando in un territorio sconsacrato, e poi abbattendo le barriere esistenti tra i generi maschile e femminile e di conseguenza anche tra le comunità religiose di diversa appartenenza.
Dio non si lascia accaparrare dal nostro desiderio di controllo per imprimere su di lui la nostra impronta. Non è lui che appartiene a noi, ma siamo noi che apparteniamo a lui.
Dio è il Dio d’Israele, ma non è ebreo. È il Dio di Gesù, ma non è cristiano. È il Dio dei samaritani, ma non è samaritano. È il Dio dei musulmani, ma non è musulmano. È il Dio dei buddisti, ma non è buddista. È il Dio degli europei, ma non è europeo. È il Dio degli africani, ma non è africano…
Quando gli uomini impareranno ad amare Dio senza maschilizzarlo, e le donne ad adorarlo senza farne una femmina e gli ebrei ad adorarlo senza semitizzarlo e i musulmani ad adorarlo senza islamizzarlo e così via, allora si comincerà a celebrare su questa terra il culto dei veri adoratori che il Padre richiede, anzi quelli che reclama, quelli in spirito e verità.
Con la samaritana siamo obbligati a riconoscere la miseria delle nostre concezioni di Dio, ancora e sempre troppo anguste, etniche se non tribali, aggrappati come siamo al nostro monte o quell’altro e quell’altro ancora… e ci costruiamo un dio domestico in concorrenza con gli altri.
Occorrerà quindi che il nostro culto, quello dei veri adoratori che il Padre esige dopo la rivelazione di Gesù, pur avvenendo nei nostri templi di pietra costruiti da mano d’uomo, si svolga come se avvenisse fuori dai templi di pietra, fuori dalle mura materiali che isolano e dividono le persone, fuori dagli spazi chiusi, spazi mentali e culturali, fuori dai nostri confini che custodiamo gelosi, perché sia un culto che dica sempre l’amore incondizionato del Padre per questa umanità.
Ecco la sete di Dio, non tanto la nostra sete di lui, ma quella sete che Dio stesso manifesta e che Gesù griderà sempre verso mezzogiorno, ma questa volta inchiodato sulla croce: Ho sete! (19, 28). Sete di cosa?
Sete di comunione con Dio e con noi. Sete di portare il volto di Dio Padre a questa umanità che ancora in suo nome si divide e si fa del male.
Preghiamo perché questa sia anche la nostra sete: quella di portare dentro, di includere, di integrare nel nome di un Dio Padre che è Spirito che vogliamo adorare in spirito e verità.