DOMENICA DELLA DEDICAZIONE DEL DUOMO DI MILANO, CHIESA MADRE DI TUTTI I FEDELI AMBROSIANI - Lc 6, 43-48
Il ricordo che abbiamo vissuto in questi giorni del 60° anniversario di apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre) ci aiuta a gettare sulla festa della Dedicazione del nostro Duomo uno sguardo altro, perché quel cantiere che è stato il Concilio non è mai finito. Come esiste da secoli (1387) la Fabbrica del duomo necessaria per la sua manutenzione e sicurezza, occorre che viviamo il nostro essere chiesa come un cantiere, sempre in costruzione, semper reformanda[1], semper aedificanda.
Ora ci ricorda Pietro, in questo cantiere c’è un punto fermo, che è Cristo, la pietra angolare, il nostro riferimento… ma, quella pietra che i costruttori avevano scartato, è davvero il nostro riferimento? Non è la nostra chiesa troppo concentrata su di sé? Troppo pesante nei suoi apparati e nella sua struttura? Non perché questo sia male in sé, ma perché quando la chiesa si ripiega su stessa e sulla propria conservazione non riesce più ad essere riflesso di Gesù.
Troppo spesso riteniamo un certo modo di fare, certe consuetudini pastorali come indispensabili, ma se guardiamo la storia possiamo ben dire che nessuna traduzione pastorale del cristianesimo sarà mai definitiva. Non dobbiamo semplicemente ripetere una morale o una dottrina, la chiesa in definitiva è destinata a desiderare e a favorire l’incontro con la persona di Gesù. Lo specifico necessario oggi è far incontrare tutti con Gesù e Gesù con tutti.
Questo comporta riconoscere con umiltà che alcune cose concrete devono cambiare: pensiamo sia all’obbligo del celibato per i preti, al ruolo della donna, al coinvolgimento del popolo di Dio nella nomina dei vescovi… ma anche più semplicemente basterebbe che ogni comunità cristiana stilasse l’elenco di tutte le attività che ogni anno realizza e che per ciascuna si domandasse in modo secco e diretto. Questa attività, questa pratica, questa tradizione riflette o no Gesù Cristo? Permette o impedisce l’incontro con Cristo e col suo Vangelo?
La capacità di rispondere a questa domanda sarebbe in grado di interrompere quel mortifero circolo vizioso del ‘si è sempre fatto così’ e ci costringerebbe a fare i conti con una chiesa pazza d’amore per il suo Signore e per tutti gli uomini da Lui amati. Con una chiesa ricca di Gesù e povera di mezzi. Con una chiesa che sia libera e liberante[2].
Mi fa pensare il sottotitolo che la liturgia ci propone nel frontespizio: Chiesa madre di tutti i fedeli ambrosiani. Mi fa pensare, perché sembra che questa madre talvolta sia un poco strana: conosciamo la dedizione e il consumarsi delle nostre mamme per la felicità dei propri figli, invece noi la troviamo troppo preoccupata di se stessa, e come sia diventata sterile, senza più figli, non ha più giovani, non genera più discepoli del vangelo!
Se diventiamo riflesso di Cristo e non semplicemente organizzatori e funzionari di un sistema religioso (congregazione, movimento, parrocchia…), se diventiamo testimoni di Cristo, ma non del Cristo da museo, buon esempio del passato, come un ricordo d’infanzia, come qualcuno che ci ha salvato duemila anni fa. Questo non servirebbe a nulla. Ma di un Cristo che ci riempie del suo amore, che ci libera, che ci trasforma, che ci guarisce e ci conforta, che vive, parla ai nostri problemi, interpella i cuori pensanti, scuote le coscienze…. Allora renderemo accessibile il Vangelo, anche ai giovani.
Non ci fa riflettere il fatto che Gesù non abbia lasciato nulla di scritto, piuttosto abbia affidato ai suoi discepoli il compito di trovare i mezzi più adeguati a trasmettere il suo messaggio? Colpisce una tale fiducia che Gesù pone nei suoi discepoli, così come colpisce pure la sua sicurezza che i discepoli possano fare cose più grandi di quelli che lui ha compiuto, se non verrà meno la fede in lui. D’altra parte, non sarebbe stato più corretto e meno rischioso redigere un vangelo unico canonico, anziché quattro testi con discordanze interne molto evidenti?
Invece ogni singolo evangelista ha in mente non solo Gesù, ma anche il suo lettore, nel cui cuore egli tenacemente vuol far sorgere un desiderio, un incontro.
Allora forse dobbiamo chiederci se dietro le resistenze che opponiamo spesso agli appelli al cambiamento che vengono proprio da Papa Francesco non ci sia qualcosa da rivedere nella nostra fede in Gesù.
Una di queste cose è che dobbiamo riconoscere non senza qualche amarezza, che tante nostre realtà non sono luoghi ove oltre a pregare, si insegni pure a pregare. Tant’è che ci sono sempre più persone che non sanno nemmeno fare il segno di croce o sono incapaci di riuscire a concludere un Padre nostro.
D’altronde è proprio grazie alla preghiera che è dato a ogni persona, penso soprattutto ai giovani, la possibilità di coltivare la propria amicizia con Gesù. Con l’amico parliamo, condividiamo le cose più segrete. La preghiera è una sfida e un’avventura. La preghiera ci permette di raccontargli tutto ciò che ci accade e di stare fiduciosi tra le sue braccia, e nello stesso tempo ci regala momenti di preziosa intimità e affetto, nei quali Gesù riversa in noi la sua vita[3].
È giunto il tempo di trasformare i nostri luoghi ecclesiali, che sia il Duomo o la nostra Chiesa o cappella, in luoghi in cui non solo ci si dedica alla preghiera, ma in cui si insegna a pregare, come luogo in cui chiunque possa incontrarsi con Gesù e ricevere da lui l’accesso alla verità su Dio e sull’uomo, quella verità custodita dalla parola Amore.
Perché, di conseguenza, una chiesa innamorata di Gesù non ha tempo per scandali, traffici, e nemmeno veleni e polemiche. La pagina di Luca, ci ricorda le parole di Gesù sulla necessità dei buoni frutti…
Forse sono propri i cattivi frutti che portiamo noi ad allontanare i giovani dalla Chiesa. Ci rendiamo conto che senza i giovani la chiesa muore? Dobbiamo fare una seria verifica: quali sono i frutti che portiamo principalmente come discepoli? Quali sono i doni che sappiamo portare a maturazione: sono forse gli scandali finanziari o sessuali? Le chiacchiere, i pettegolezzi, le critiche, le offese o le condanne?
Dobbiamo avere grande cura per le parole che diciamo. Lo dico soprattutto perché nei nostri ambienti non c’è molta cura per né per il tempo, né per il modo in cui usiamo le parole.
Ci sono parole che allontanano, che creano distanze, che fanno ammalare e altre che uniscono, che salvano, che seminano. Alcune che umiliano e imprigionano, altre che liberano.
La celebrazione del Duomo ci porta a contemplare la bellezza di un edificio che rimane scolpito nel cuore e nello sguardo, ma non credo sia questo il senso vero della nostra celebrazione. Saremmo niente di più e niente di meno che nella condizione dei tanti turisti che lo visitano.
Guardare il Duomo ci deve rimandare allo sguardo su Gesù, perché è quello sguardo che ci salva. Come sarebbe bello se uno guardando la Chiesa potesse riconoscere subito, immeditatamente il volto di Gesù.
Questo è possibile se la nostra fede assume il suo modo di vedere, la fede è guardare come guarda Gesù. La fede non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. Vedere con gli occhi di Gesù.
In tanti ambiti della vita ci affidiamo ad altre persone che conoscono le cose meglio di noi. Abbiamo fiducia nell’architetto che costruisce la nostra casa, nel medico che ci indica la medicina per la nostra guarigione, nell’avvocato che ci difende in tribunale. Abbiamo bisogno di qualcuno che sia affidabile ed esperto nelle cose di Dio[4].
Guardiamo Gesù e impariamo a guardare la vita, il mondo, le cose, gli altri col suo punto di vista. Una chiesa così diventa trasparenza di Vangelo anche per chi non crede più ed è stanco delle nostre istituzioni.
(1Pt 2,4-10; Lc 6,43-48)
[1] Francesco, Convegno della chiesa italiana, Firenze 10 novembre 2015
[2] Papa Francesco, Omelia, 11 ottobre 2022.
[3] Cf Francesco, Christus vivit n.155
[4] Francesco, Lumen fidei n.18