II DOPO LA DEDICAZIONE - La partecipazione delle genti alla salvezza - Mt 13, 47-52
Già fin dai primi secoli i santi e le sante erano talmente numerosi che la chiesa avvertì la necessità di raccogliere i loro nomi in un’unica grande celebrazione, la festa di tutti i santi appunto.
La pagina di vangelo tratta dal cap.13 di Matteo (13, 47-52) ci offre una prospettiva interessante per questa celebrazione perché racconta che Dio agisce come una rete da pesca che gettata in acqua raccoglie ogni genere di pesci! Dio irretisce tutti! Raccoglie tutti, ma proprio tutti.
Non è affatto scontato che noi la pensiamo così: davvero il Signore offre a ogni uomo e a ogni donna la possibilità di lasciarsi amare da lui, di lasciarsi raggiungere dalla sua tenerezza e dalla sua misericordia?
Agisce davvero come un pescatore che getta le reti e non sta a guardare mentre la rete cattura i pesci quelli buoni da mangiare e quelli no? Oltretutto al pescatore sarebbe impossibile dividere i pesci mentre pesca. Appunto per assurdo è impossibile che Dio divida nel mondo i figli buoni dai figli cattivi. Lo giudicherà alla fine. Non adesso.
L’impossibilità di Dio, che potrebbe apparire una contraddizione perché a Dio nulla è impossibile, non sta nell’ordine dell’impossibilità umana, perché l’amore di Dio è senza limiti, offre a ogni uomo e a ogni donna in ogni momento della sua esistenza la possibilità di lasciarsi amare da lui. Per quanto uno lo possa bestemmiare, per quanto uno possa fuggire lontano da lui, Dio è sempre lì pronto a raccoglierlo, ad amarlo.
Verrà il giorno e il momento in cui ognuno di noi renderà conto della propria vita, delle proprie scelte e decisioni. Ma ora ogni giorno è possibile per lasciarci prendere da Dio. Questa è una buona notizia, è Vangelo.
Ed è un Vangelo che si scontra con l’idea di santità che abbiamo in testa noi, vale a dire di una santità intesa come il vertice della perfezione umana. Una persona è santa quando è perfetta. Si tratta anche di intenderci sul senso di perfezione umana. La bellezza, per esempio, è una perfezione umana, ma non appartiene necessariamente alla santità. Perfezione è la pienezza di una vita, è la completezza di un’esistenza…
Ma allora quando l’essere umana può conoscere la perfezione? È mai possibile che una persona possa considerarsi tale? È o può essere reale la santità in terra?
Solo Dio è santo! Solo Dio è buono, bello, vero, affidabile, credibile! Come cantiamo nel cuore della celebrazione: Santo, Santo, Santo…
E se solo Dio è santo, dobbiamo cambiare la nostra idea di santità riferita agli umani: non può essere semplicemente il frutto e il risultato del nostro impegno, dell’ascesi, della pur necessaria disciplina… è la santità di Dio che si rifrange sui volti e nelle vite delle sue creature.
Riconsideriamo il fatto che il santo non è prima di tutto l’uomo umanamente perfetto, ma è la persona umana colmata, avvolta dalla grazia. Il santo è la persona, uomo e donna, che lascia che Dio riempia di sé la propria vita, è uno che permette alla misericordia dell’Eterno di sanare i nostri peccati.
La parabola della rete, la settima parabola del cap.13 di Matteo, ci chiede di cambiare quell’idea ascensionale che abbiamo della santità, per cui santo è colui che parte dal basso, quindi dall’imperfezione per elevarsi a una condizione di perfezione. È un’idea che colloca l’essere umano in alto, il più vicino possibile all’astrazione e all’impossibilità perché l’uomo da solo non si salva.
Gesù nel Vangelo si presenta come presenza tangibile della santità di Dio e non già perché ambisce a diventare chissà che cosa, lo è già: è figlio di Dio! La sua santità consiste in una vita che trova la sua pienezza nello scendere nei bassi fondi dell’umanità, nel condividere la sofferenza, la fatica, la solitudine, il pianto, l’ingiustizia… finanche la morte per riempire di divino tutto l’umano. Il santo è colui che lascia che Dio lo riempia della sua santità, e non colui che pensa di diventare più gradito a Dio presentandogli i suoi sforzi.
Penso, tra i numerosissimi esempi che potremmo considerare, alla testimonianza concreta di Chiara d’Assisi. Se è vero che grazie a papa Francesco abbiamo ritrovato lo spirito profetico di Francesco d’Assisi importante e necessario per il nostro tempo, nondimeno credo che la santità di Chiara ci possa aiutare a guardare avanti, al nostro futuro.
E ne abbiamo tanto bisogno perché ci stiamo inoltrando in un altro periodo difficile, ci prepariamo ad affrontare ancora ulteriori limitazioni alle nostre libertà per la tutela della salute nostra e degli altri. È indubbio che questo ci provochi ansia, disagio psicologico e morale, scoraggiamento con tutta la fatica di ridurre le nostre relazioni, i nostri rapporti. Quale santità è possibile? Quale salute dell’anima ci può aiutare ad attraversare tutto questo?
Nelle sue lettere ad Agnese di Praga[1], Chiara insiste su tre verbi che ritornano numerose volte: Guarda. Considera. Contempla!
Il primo verbo è proprio della sensibilità, dell’occhio che vede, che ammira, che osserva: Guarda intorno a te e ammira le cose belle o nobilissima regina, scrive Chiara. Chi non è un innamorato della natura, chi non è sensibile alla bellezza non può godere dei doni di Dio.
Il secondo verbo, scrive Chiara è Considera. Vale a dire rifletti. È il secondo occhio, dopo quello fisico che cerca la bellezza. Considera è un verbo ambizioso: con-sidera fa riferimento all’atto straordinario di mettere insieme le stelle. Quello che non possono fare le mani, lo fa la mente, il pensiero. Considerare è mettere le cose al loro posto, nella loro armonia.
È la responsabilità della mente. Come non possiamo rinunciare al corpo, non possiamo rinunciare all’intelletto. È il secondo occhio che ci fa scoprire la faccia sempre invisibile della luna, ma che sappiamo essere sempre là.
Infine il terzo verbo: Contempla. Soltanto dopo che il primo occhio e il secondo occhio si sono aperti, si apre per così dire il terzo occhio, come dicono i mistici cristiani ma non solo (anche i buddisti), l’occhio della contemplazione. Senza i primi due la visione delle cose è sfalsata, ma senza il terzo non si vede chiaro. Ed è quello che succede a noi, specie nei momenti difficili. Se abbiamo soltanto i due occhi dei sensi e della mente e non scopriamo la terza dimensione che ci dà la prospettiva profonda, stiamo male, diventiamo disperati perché la realtà è a tre dimensioni, la vita è tridimensionale.
La contemplazione per Chiara d’Assisi è necessaria per reggere la vita umana, altrimenti oscilliamo vittime di un sensualismo riduttivo o di un intellettualismo che diventa inumano.
La contemplazione è ciò di cui abbiamo bisogno per vivere pienamente questa stagione della storia. Il primo occhio da solo ci fa vedere il diffondersi della pandemia, ci prende la paura, l’ansia e la tristezza. Il secondo occhio della scienza ci aiuta a considerare le azioni e le responsabilità che dobbiamo assumere per tutelare la salute di tutti.
Il terzo occhio, quello dell’anima, ci insegna a contemplare la vita che si snoda in questa vicenda. Il contatto meramente sensuale con la realtà la soffoca, la opprime, la sfrutta. Così come il pensiero da solo distrugge la cosa pensata. Ma anche la contemplazione da sola senza le altre due dimensioni diventa inumana.
Contemplare non è chiamarsi fuori dalla realtà, fuggire in un’evasione mistica, non si tratta di fare del consumismo spirituale, ma scendere nella profondità dell’anima e contemplare la vita. Significa collocare il nostro cuore e la nostra mente in Dio e allora per mezzo della contemplazione trasformarci in Cristo. La contemplazione non è un chiudersi su sé stessi per un’altra vita, è lasciarsi trasformare e trasformare tutta la realtà.
La nostra trasformazione in Cristo e nel Cristo totale non è soltanto quello della Croce, ma è quello della Risurrezione e dell’Eucaristia. Non è magia, non è sciamanesimo, dove le cose si trasformano per suggestione.
Gesù ci insegna che c’è un termometro della contemplazione ed è l’amore. Ogni volta che il Risorto ha incontrato i discepoli ha detto due cose: pace a voi, che vuol dire sii contento di te e degli altri, vivi in pace, goditi il silenzio, non cercare il successo. E poi aggiunge: non abbiate paura. La paura non è frutto del pensiero, è la paura del domani, di che cosa capiterà, paura del mondo che va a rotoli, paura per il mio lavoro, paura di non riuscire… se hai paura non c’è contemplazione.
Per arrivare alla contemplazione ciascuno deve riempire la propria sensibilità e intelligenza e poi abbandonarsi. Come Chiara, scegliamo di essere poveri per contemplare oggi e in questa condizione, la pienezza della vita, riflesso della santità di Dio.
[1] Agnese di Praga, figlia del re di Boemia, nata nel 1205, promessa sposa a Enrico VII, figlio dell’imperatore Federico II e poi a Enrico II di Inghilterra e richiesta dallo stesso imperatore Federico II, rifiutò energicamente tali proposte… con l’amicizia e la stima di Chiara (che le scrisse quattro lettere) preferì una vita nella verginità e nella povertà.