VII DOPO PENTECOSTE - Gv 16, 33 - 17, 3
Ascoltando di domenica in domenica le tappe della storia biblica non ripercorriamo semplicemente qualcosa che appartiene al passato, eventi che hanno fondato la storia dell’alleanza biblica, ma riconosciamo che questa è storia di salvezza anche per noi, nel senso che possiamo vedere in essa il paradigma della nostra stessa esistenza, delle nostre biografie.
Se ripenso a me stesso: ringrazio il Signore che un giorno mi ha dato il dono della vita, così ciascuno di noi, un giorno, si è acceso il miracolo della vita come per Adamo e Eva.
Ad un certo punto, come Abramo, ho lasciato la mia casa, la mia terra, per obbedire alla vocazione che il Signore mi ha messo nel cuore.
Per giungere a compiere un passaggio, come ad esempio l’ordinazione sacerdotale o per molti di voi il matrimonio, che è stato un po’ come il nostro esodo con la pasqua, un passaggio a una nuova condizione.
Ma ancora, le nostre illusioni da innamorati o idealisti hanno dovuto attraversare il deserto prima di giungere alla terra della maturità: siamo andati anche noi nel deserto, dove il Signore ci ha formato, ci ha corretto, ci ha aiutato a purificare il cuore, attraverso errori e deviazioni abbiamo appreso a riconoscere la volontà di Dio.
E dal deserto della prova siamo giunti alla terra promessa, alla maturità e che contrariamente alle nostre fantasie non è mai una condizione pacifica, priva di contraddizioni, anzi, come per Giosuè la terra promessa è una conquista e un dono al tempo stesso, anche noi abbiamo combattuto o stiamo combattendo le nostre battaglie con quei nemici che ci abitano, per renderci conto che la terra promessa non è un luogo, un brandello di superficie, ma è la metafora di Dio stesso, della nostra vita con lui, come dice Gesù nel vangelo, della vita eterna.
Possiamo rileggere così la vicenda di Giosuè che, in qualità di successore di Mosè, conduce il popolo al di là del Giordano e si rende conto che entrare finalmente nella terra promessa significa affrontare una dura lotta.
Infatti oggi lo incontriamo con il suo esiguo esercito dopo aver percorso di notte 20 km da Galgala (vicino a Gerico) che sale a Gabaon un dislivello di 900 m. per affrontare un esercito di ben cinque re alleati.
La marcia di Giosuè e dei suoi è notturna perchè non voleva che i nemici vedessero quanto esigua fosse la consistenza del proprio gruppo armato.
Ebbene quando Giosuè arriva a Gabaon a ovest nella valle di Aialon dove sono accampati i nemici c’è ancora la luna, mentre a est, da dove arriva lui, sta sorgendo il sole e allora comincia ad avere paura e si rivolge al Signore perchè il sole, più che fermarsi, aspetti a fare luce e la luna invece permanga nella sua luminosità che permette di vedere, ma non troppo, così da portare a buon fine la battaglia.
Che questo passo sia diventato fondamento per la difesa del sistema tolemaico (II sec. d. C.) contro quello copernicano (1543) strenuamente difeso da Galileo Galilei, con tutto quello che ne scaturì, ci rendiamo conto oggi quanto sia distante anni luce, appunto, dal senso e dal significato che esso invece ha.
La preghiera di Giosuè, il suo grido al sole e alla luna, la dicono lunga sul senso di questa battaglia, infatti non troverete in tutto il libro di Giosuè una qualche somiglianza con le epopee classiche che descrivono consigli di guerra, che raccontano strategie militari, che cantano i duelli fra gli eroi… E nemmeno con la nostra letteratura risorgimentale! Giosuè vince la sua lotta affidandosi a Dio: questa è una battaglia del Signore e il fatto che in quella zona vulcanica un’eruzione facesse piovere pietre sul campo del nemico, viene compreso come una conferma che la battaglia la vince il Signore.
Proviamo a leggere così le parole di Gesù del vangelo di Giovanni quando dice: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo» (16, 33). Cosa significa?
Sappiamo bene che Gesù non ha imbracciato armi, non ha guidato eserciti… anzi egli è «l’agnello di Dio che porta su di se il peccato del mondo»!
Cos’è questo «mondo», o più precisamente «il peccato del mondo»? Se non tutto ciò che ci impedisce di essere noi stessi, di essere liberi di amare? Non sono forse questi nostri nemici? Le tentazioni più o meno subdole che intralciano il nostro cammino verso quella terra promessa che è l’amore di Dio, la vita di Dio in noi? Non sono forse quegli idoli che ci seducono il cuore?
Per questo ognuno di noi ha da combattere la propria battaglia, la propria lotta spirituale, consapevoli come Giosuè della vertiginosa debolezza di quei peccatori che siamo noi, delle poche armi e dell’esiguità delle nostre forze, ma dall’altro certi della forza soave e irresistibile della grazia, dell’amore di Dio.
La vittoria di Gesù non è il trionfalismo dei cesari o dei moderni satrapi e nemmeno la vittoria mondana del successo delle star dei nostri schermi.
Gesù non ha vinto il mondo nemmeno con il buon senso che pure tante volte ci è necessario; non l’ha vinto con la mediazione politica che pure ci è utile; e tanto meno con la forza…
L’ha vinto quel giorno in cui anche il sole si fermò per il Figlio amato, il giorno in cui si arrestò la luce e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perchè quel giorno Dio ha vinto la morte, ha vinto il peccato.
Ed è questa la battaglia prefigurata in quella di Giosuè: non solo egli porta lo stesso nome salvifico di Gesù, ma il passaggio del Giordano che introduce nella terra promessa, è il tipo del battesimo in Gesù che introduce in Dio; le battaglie di Giosuè sono il tipo della lotta di Gesù sul monte delle tentazioni fino al Getsemani, per dire che anche per noi che combattiamo ogni giorno, la vera formazione è questa lotta spirituale che come dice Paolo affrontiamo quando ci misuriamo con «la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo e la spada». Sette situazioni emblematiche nelle quali, dice l’apostolo, noi siamo «più che vincitori», grazie a colui che ci ha amati.
E dunque come siamo vincitori, cosa dobbiamo fare noi in questa lotta? Qual è la nostra parte?
La nostra parte non ha che un nome: umiltà.
L’umiltà che viene non dal confidare nei nostri mezzi e nelle nostre armi, ma nell’accettare la nostra debolezza e insieme la sua grazia.
Nella conquista della nostra maturità, della nostra terra promessa, per stare nell’amore di Dio occorre grande umiltà, come diceva un padre della chiesa: «Preferisco una sconfitta con umiltà che una vittoria con orgoglio», o come arriverà dire più tardi san Bernardo: «A una vergine orgogliosa, Dio preferisce un peccatore pentito».
È questa umiltà del cuore che ci dona di rispondere alla domanda di Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?», con le sue stesse parole: «Nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù nostro Signore».
(Gs 10, 6-15; Rm 8, 31-39; Gv 16,33 – 17,3)