XIX DEL TEMPO ORDINARIO - Lc 12, 32-48


Ascoltando queste parole del Signore, verrebbe da chiederci se abbiano ancora un senso per noi oggi, parrebbe infatti che Gesù faccia del terrorismo psicologico come recita il titolo del foglietto: Vegliate perché viene all’improvviso il Signore, e non è certo con la paura che oggi si torna a credere! Non è forse fin troppo vero come nella storia la paura dell’ aldilà abbia suscitato una religione da schiavi? La paura del giudizio di Dio non può che generare una religiosità affatto libera, piuttosto imbrigliata nella condizione di chi, appena diventa più sicuro di sé, abbandona questo Dio nel suo cielo. Eppure la dimensione dell’incontro con il Figlio che viene è talmente importante che il Signore gli dedica ben tre parabole solo nel Vangelo di oggi: la prima è quella del padrone che torna dalle nozze a notte fonda e vedendo i suoi servi attenti e vigilanti, si offre, pieno d’amore a imbandire per loro la cena.

La seconda è quella del ladro che a sorpresa irrompe in casa, dove l’accento è posto su quell’inaspettato che comporta ogni rapina e che ben descrive l’atteggiamento scelto dall’Eterno per irrompere nella nostra vita.

La terza parabola è quella dell’amministratore “fidato e prudente” che è sempre pronto a rendere conto al padrone in qualsiasi ora questi lo chiami a rapporto.

L’errore fondamentale sarebbe quello di pensare: «il padrone tarda a venire». In questa frase è racchiuso il problema essenziale che ha di fronte la chiesa di Luca, che è il problema dell’amministratore e di ciascuno di noi.

Ricordate come domenica scorsa il Signore ci chiedeva di essere liberi dalla bulimia dell’avere, dal vano affannarci per molte cose, dalla sciocca cura dell’apparire per arricchire davanti a Dio. Gesù ci chiede di gettare il nostro cuore, fin da subito, oltre le cose. Non si tratta di terrorismo psicologico, di una religiosità della paura, ma di un cambiamento di prospettiva, perché noi siamo creature, siamo figli, questa è la nostra reale condizione.

E se è vero che lo scoglio contro cui vanno ad infrangersi le onde dei nostri orgogli, dei nostri progetti e dei nostri sogni è la morte, Gesù ci chiede appunto di gettare il nostro cuore in Dio, perché non siamo degli assoluti, ma destinatari di una promessa. Non è la paura l’anima della nostra fede, ma una promessa, la promessa del Regno, la promessa di una vita che va oltre la morte: Non temere, non aver paura, piccolo gregge, perché al Padre è piaciuto dare a voi il Regno.

Davvero il mondo corre unanime da una parte, tutti si preoccupano delle cose, dei soldi … anche per noi è difficile fidarci del Vangelo e a seguirlo fino in fondo ci sembrerebbe di stare fuori dal mondo. Insomma sono proprio pochi, Signore – e io non so nemmeno se sono tra costoro -, ad essere così liberi di fronte al dilagare dell’affanno della ricchezza, del denaro, da riuscire ad affrancarsi dalla cupidigia per avere un cuore libero, perché «Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore». È questa leggerezza, questa libertà di cuore che rende il discepolo attento, pronto con la cintura ai fianchi e le lucerne accese. Due simboli per dire la libertà di cuore.

Con la cintura ai fianchi: se al tempo di Gesù si indossavano vesti ampie e lunghe, era ovvio che per muoversi, camminare e lavorare era necessario rimboccare le falde della veste nella cintura. Ricordate il comando dato a Mosè per la celebrazione della pasqua: «con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano» ( Es 12,11) per essere pronti ad uscire dall’Egitto, dalla terra di schiavitù. E proprio a pasqua, dice Giovanni, Gesù si cinse ai fianchi la veste per lavare i piedi ai suoi discepoli. Ecco la libertà di cuore per essere sempre pronti ad uscire dalla terra del nostro egoismo e dell’idolatria e liberi di servire e di vivere nell’amore.

Forse abbiamo perso l’abitudine, ma ogni giorno avremmo bisogno di riprendere la pratica dell’ esame della coscienza, quale esercizio di vigilanza evangelica, strumento capace di preservarci dalla mondanità, dall’atmosfera inquinata nella quale viviamo e che riscuote non poca simpatia anche nella nostra coscienza. Perché è proprio vero che si attende ciò che si ama.

E poi Gesù ci chiede di avere le lucerne accese, perché occorre essere pronti anche di notte, ovvero anche quando intorno il buio ci avvolge, anche quando il non senso, il dubbio, la fatica ci opprimono. Proprio allora, come già per Abramo, anche per noi la luce accesa è quella della parola di Dio, come dice il salmo: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (118, 105).

Per fede nella parola di Dio, Abramo ha lasciato le sue sicurezze per una terra che non possedette mai; con fede nella Parola, Abramo ha vissuto la notte del sacrificio di Isacco; nella fede di quella Parola, Abramo ha abitato la terra promessa come straniero, in attesa della città il cui architetto e costruttore è Dio.

Invece succede sempre più spesso che le nostre lucerne languiscano, che la fiamma della candela che abbiamo ricevuto il giorno del nostro battesimo magari sia spenta soverchiata da mille problemi e da mille difficoltà …

È vero, i problemi sono come il vento, dice un antico proverbio, e basta un soffio per spegnere l’esile fiammella di una candela, ma se disgraziatamente c’è un forte vento mentre divampa un fuoco di montagna – come capita purtroppo spesso in questa stagione –, quel vento non spegne il fuoco, anzi, lo alimenta. Perché? Perché in un luogo spegne, in un altro alimenta? Non dipende dalla forza del vento, ma dalla quantità di fuoco.

Così succede nella nostra vita: la forza del vento non siamo noi a deciderla, sono le prove stesse della vita che la determinano, ma il fuoco, quello sì, che tocca a noi tenerlo acceso, alimentarlo, attizzarlo sempre più, tenere viva cioè la Parola di Dio nella nostra vita.

Gesù non viene come il controllore dell’autobus per sorprenderci senza biglietto, il Signore ci chiede di gettare il nostro cuore in Dio, di avere i fianchi cinti e le lucerne accese, pronti a servire e con la sua Parola nel cuore, perché allora l’Eterno stesso ci farà sedere alla sua mensa ed è proprio ciò che ci fa pregustare ogni volta che celebriamo l’Eucaristia.