V DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Lc 10, 25-37


Quando i Padri della chiesa leggevano questa pagina di Luca vedevano nel samaritano non l’immagine, come facciamo subito noi, del cristiano che pratica la carità, che fa volontariato, che si impegna nel sociale…. ma il Cristo stesso che è venuto a dirci la compassione del Padre per le nostre ferite, per i nostri peccati, per tutto ciò che ci fa soffrire.

Questa è l’esperienza sorgente di ogni forma di amore: ogni domenica anche noi sperimentiamo la tenerezza di Dio che ci viene incontro, che si prende cura di noi, che si fa medico delle nostre ferite versandovi l’olio e il vino, donandoci la sua Parola e il suo Corpo per guarire le nostre miserie.

Se dunque Gesù è il samaritano del mondo, allora la domanda non sarà più così come l’ha formulata il dottore della legge: «Chi è il mio prossimo?».

Cosa intende domandare il dottore della legge con la sua domanda? Intende dire: ma senti noi tutti sappiamo che il cuore della Bibbia è amare Dio con tutto il cuore, con tutto il fiato, con tutte le forze e con tutta la mente e amare il prossimo come se stessi. Ma fino a dove mi devo spingere per amare il prossimo?

Una domanda che oggi, per un credente pensoso, assume uno spessore di grande drammaticità. Perchè il prossimo ci viene incontro, ci viene addosso, oserei dire, con i volti più diversi e imprevedibili.

Se questo prossimo è uno straniero non è da sottovalutare che l’incontro susciti paura, angoscia e anche repulsione, soprattutto in un tempo come quello che viviamo oggi. Allora, cosa vuol dire amare il prossimo? Fino a quando, quanto devo amarlo?

Perchè noi dobbiamo difendere la nostra identità, le nostre radici… e tutti questi discorsi che spesso sentiamo ripetere anche da chi dice di essere credente (anche se molte volte è meglio esserlo senza dirlo, che dirlo senza esserlo).

Cosa risponde il Signore? Vi invito a partire dalla conclusione della parabola. Forse che il samaritano diventa giudeo? O che il giudeo diventa samaritano? Nient’affatto: uno cura il ferito, lascia i soldi all’oste e se ne va per la sua strada. L’altro viene curato e riprende la sua vita.

La parabola non conclude dicendo che le diversità vengono cancellate dalla generosità, che le differenze vengono meno, che tutto si è sciolto in un abbraccio superficiale quanto sciocco. Quello che il Signore racconta è che è accaduta una cosa straordinaria: hanno scoperto di avere qualcosa in comune, di essere fragili, di essere uomini che hanno bisogno l’uno dell’altro. Gesù ci porta dritti al cuore di una questione fondamentale: il rapporto tra identità e alterità.

«Chi è il mio prossimo?». Se il prossimo deve essere l’oggetto del mio amore, nel modo di pensare diffuso e comune, uno ragiona dicendo: Amo partendo da me, dalla mia famiglia e vado via via allargando il cerchio, fino a sfumare nell’indifferenza…

Quante volte sentiamo dire che la prima carità comincia dai parenti, dalla nostra famiglia! E non c’è nulla di sbagliato, ma se fosse così semplicemente, cosa è venuto a dirci il Cristo? Non ci sarebbe niente di nuovo.

E poi nessuno avrebbe lasciato Gerusalemme per andare portare il vangelo nel mondo, cosa c’è di nuovo da dire? Non fanno tutti così?

Il prossimo non è solo quello che intende l’opinione comune, ovvero colui che mi è vicino in quanto legato a me da vincoli e relazioni di consanguineità, da una comunanza culturale, da una medesima appartenenza religiosa.

Sembra quasi paradossale ma nella parabola il prossimo è colui che ci è massicciamente distante: per il vissuto giudaico il samaritano era infatti l’eretico per antonomasia e rappresentava il più lontano dalle tradizioni, dai costumi ebraici.

Ecco il samaritano di cui parla Gesù: è colui che riconosce nel più lontano il suo prossimo. Perchè così fa Dio, che riconosce nella pecora smarrita, la sua preferita; che cerca nel figlio prodigo, il figlio da amare.

Chi è il mio prossimo? Tu sei il prossimo di coloro che incontri sulla tua strada e che hanno bisogno di amore. Con Gesù, l’idea del prossimo perde ogni carattere di consanguineità, di appartenenza culturale, razziale, etnica.

«Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni, scrive Benedetto XVI nella Caritas in veritate (55). «Tutto l’uomo e tutti gli uomini», per questo il prossimo è colui al quale tu ti approssimi, ed è importante l’azione che compi per riconoscere il prossimo.

È un gesto non solo di bontà, ma di responsabilità: nel linguaggio comune essere responsabili significa dare conto di ciò che si fa, ma responsabilità è anche rispondere alla domanda altrui, prendere sul serio la richiesta dell’altro.

Infatti Cristo rovescia l’interrogativo del dottore della legge: non devi più chiederti chi sia il tuo prossimo, ma che cosa fai tu per il prossimo che ti chiede aiuto?

Su cosa fonda Gesù questo comandamento dell’amore? Precisamente su ciò che veniva affermato all’inizio della pagina e che abbiamo riascoltato nella magnifica lettura del Deuteronomio: renditi prossimo di quelli che incontri, perchè Dio è prossimo di tutti coloro che vivono. Se vuoi essere figlio di Dio, la prossimità non va calcolata da te, ma a partire dal Signore.

E come Dio si commuove per l’uomo, per ogni uomo, al punto da rendersi prossimo con Gesù, così prossimo diventi tu stesso quando provi compassione per quell’uomo che sta ai margini della strada, quando provi compassione e ti chini su colui che sta lì accanto alle nostre indifferenze.

È questo verbo che fa la teologia del racconto: avere compassione. È  il verbo di Gesù, vero samaritano dell’umanità.

È il verbo che dice l’atteggiamento del Signore quando si trova davanti al lebbroso, quando incontra il cieco, o quando ascolta il pianto della donna che sta per essere lapidata… è il verbo del Padre misericordioso quando vede tornare il figlio prodigo.

È un verbo che in greco è deponente, cioè di forma passiva ma di significato attivo, per dire un movimento del cuore.

Per noi moderni il cuore è un organo di servizio, una pompa che la chirurgia manipola, restaura con bypass e pacemaker, o che perfino arriva a sostituire.

La nostra civiltà mette al governo la testa, relegando il cuore a pentola di emozioni, perchè consideriamo il cuore un organo sprovvisto di intelligenza, tutt’al più un eterno fanciullo che si innamora ad ogni età. Per noi la testa è adulta, il cuore è infanzia.

Per l’uomo biblico, e anche per Gesù, il cuore è il centro di comando. «Per l’ebraico antico il cuore è come un re nella battaglia, sta al centro delle decisioni e delle prontezze» (Erri de Luca), perché di fronte ad uno sventurato è il cuore che avverte che in quella situazione potresti trovarti tu, per cui sai di non trovarti di fronte ad uno spettacolo morboso di cronaca nera, ma di essere di fronte a qualcuno che ti riguarda, e vedi nell’altro che soffre la tua sofferenza e il dolore dell’umanità.

Come succede quando in montagna, dopo essere stati avvolti dalle nubi, ad un certo punto si apre un qualche squarcio tra le nubi e cominciano a scorgersi le cime…

Così la parabola di Gesù samaritano del mondo, in una realtà fatta di una strada polverosa intrisa di sangue e frequentata da malfattori, come gran parte del nostro mondo, mostra d’un tratto, nella figura del samaritano, lo sfolgorante aspetto del mondo di Dio: un mondo di amore, un mondo dove uno si prende cura dell’altro.

Una visione inattesa, meravigliosa e sconvolgente. Amare, biblicamente, non riguarda il sentimentalismo, ma la responsabilità della vita.

Se oggi prendessimo sul serio le parole del vangelo non avremmo migliaia di cadaveri sul fondo del mare tra l’Africa e Lampedusa, non avremmo dei poveracci respinti nelle carceri libiche o nel deserto del Sahara.

Non avremmo neppure montagne di miliardi sottratti ai poveri e sprecati per costruire portaerei, sommergibili atomici, satelliti spia, scudi spaziali e altri costosissimi ordigni destinati alla rottamazione in pochi anni…

E potremmo invece curare e sfamare milioni di persone, uomini e donne, che oggi affrontano senza speranza la malattia e l’inedia.

La parabola ci presenta, come in un lampo, un mondo di pace, il mondo di Dio, ma noi preferiamo vivere in un mondo di irresponsabilità, di egoismo e di indifferenza. Ma siamo soltanto peccatori, o forse anche irresponsabili?