ULTIMA DOPO L’EPIFANIA detta "del perdono" - Lc 18, 9-14
Trovo di grande consolazione e fonte di speranza le parole con cui Isaia concludeva la prima lettura: Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto – dice il Signore – (Is 54,5-10). È anche per questo che siamo qui, la nostra presenza all’eucaristia viene dalla consapevolezza che il Signore ci vuole bene e per quanto costruiamo montagne tra noi e lui, per quante resistenze alimentiamo… tuttavia il suo affetto non si allontana da noi.
Vi sembrerà scontata e ovvia questa considerazione, ma non lo è se Gesù ad un certo punto deve raccontare una parabola, come dice Luca, per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti (davanti a Dio) e disprezzavano gli altri (Lc 18,9-14).
Ormai sappiamo come Gesù nel vangelo di Luca, introduce di frequente delle coppie di personaggi, basti pensare ai due discepoli di Emmaus, ai due ladroni sulla croce … ma anche nelle parabole incontriamo delle coppie che intendono mettere in scena due atteggiamenti, due modi di essere e di fare, come quelli di oggi abbiamo, che sono i due opposti: il fariseo e il pubblicano.
Il fariseo, è diventato proverbiale ormai come sinonimo di persona falsa e bugiarda, ma al tempo di Gesù non era così, e non tutti i farisei erano impostori. Il termine stesso «fariseo» significa « separato», indica uno che è superiore agli altri per tanti motivi, nella parabola di oggi Gesù ne sottolinea almeno tre.
Primo perché non ruba, non è un ladro, non è un ingiusto, né un adultero, esattamente non è come quello che con la coda dell’occhio vede dietro di sé.
Secondo, perché digiuna due volte la settimana. Il digiuno era prescritto una volta l’anno, nel giorno dell’espiazione (Yom kippur).
Terzo, perché paga la decima di quanto possiede, di quanto ha comprato. Ora la decima la paga il produttore, non il consumatore. Quindi lui paga le tasse che l’altro eventualmente non ha pagato! Siamo nella fantascienza!
Ma non più di tanto, quella del fariseo è una figura più vicina a noi di quanto possiamo pensare perché in lui c’è un “orgoglio” di appartenenza, diremmo noi una sorta di catholic pride, una «superbia spirituale» che troviamo soprattutto dentro la vita cristiana e non fuori.
Non a caso Gesù colloca la parabola nel Tempio, proprio nel luogo più santo dell’ebraismo per invitarci ad avere il coraggio di guardare cosa succede dentro il Tempio, dove chi ha l’intima presunzione di essere giusto davanti a Dio perché dice le preghiere, difende i valori cattolici, perché… allora non accoglie il dono dell’affetto del Signore, perché crede di meritarselo con la sua militanza… e sapete qual è la cartina di tornasole di questo atteggiamento davanti a Dio? perché disprezza gli altri, li guarda dall’alto in basso, dimenticando appunto di essere amato da Dio.
Il contrappunto è dato dalla figura del peccatore per eccellenza, del pubblicano, come ben sappiamo oltremodo odiato perché esattore delle imposte per conto dell’impero romano (publicum era il tesoro pubblico da cui viene il termine “pubblicano” per indicare colui che ne approfittava e di conseguenza era considerato ladro e inaffidabile).
Anche di lui Gesù descrive tre atteggiamenti.
Primo si ferma a distanza, come scrive s. Agostino: «Il pubblicano s’era fermato a distanza, ma il Signore lo guardava da vicino. Poiché eccelso è il Signore ma guarda alle cose umili, gli eccelsi invece, com’era quel fariseo, li conosce da lontano».
In secondo luogo «Non basta che stesse a distanza: non osava neppure alzare lo sguardo al cielo. Per poter essere guardato da Dio, non osava alzare lo sguardo. Non osava volgere lo sguardo in alto: l’opprimeva il rimorso, lo sollevava la speranza» (Discorsi 115,2).
Infine, in terzo luogo «Si batteva il petto», come a riconoscere di avere un cuore duro, di avere un cuore che non si lascia amare e che tutto parte da lì, dalla “sclerocardia”, dicendo una preghiera molto breve che non è propriamente la formula «Kyrie eleison» che usiamo anche noi nella liturgia, ma il senso è quello: Signore mostrati propizio a me peccatore!
Quasi innominato però c’è un terzo personaggio che è il punto di convergenza della coppia, infatti non dimentichiamo che sono entrambi in preghiera davanti a Dio.
Un Dio che non approva certo le scelte di vita del pubblicano, così come non disprezza le azioni del fariseo… ma Luca presentandoci oggi questa coppia di personaggi, il fariseo e il pubblicano, che stanno davanti a Dio, disegna una caricatura, esaspera i tratti dei due personaggi, per dirci che anche noi davanti a Dio siamo talvolta un po’ farisei e un po’ pubblicani…. Nel cuore di ciascuno ci sono entrambi: il fariseo e il pubblicano.
Nel cuore di ciascuno di noi ci sono umiltà e arroganza; ci sono misericordia e presunzione, ed è solo accettando e riconoscendo davanti a Dio questa nostra condizione che possiamo essere salvati.
Ed è dal nostro modo di stare davanti agli altri che si capisce il nostro modo di stare davanti a Dio. Una volta si diceva: Chi prega si salva, oggi abbiamo ascoltato di uno che prega e non si salva affatto!
Perché io posso stare davanti a Dio moltiplicando le parole, ma non lo posso ingannare perché l’Eterno conosce bene il nostro cuore, sa di cosa siamo fatti, è consapevole che in ognuno di noi c’è il fariseo e il pubblicano, lui conosce il Caino che c’è in noi e l’Abele che ci abita.
Questa è la certezza che non dobbiamo dimenticare: nessuno di noi si merita nulla. Diciamo prima di accostarci all’eucaristia: Signore non sono degno! Perché nella misura in cui dimentichiamo di essere dei salvati, ognuno di noi è a suo modo peccatore, mentre proprio in questa miseria sperimentiamo la grazia e la misericordia e quindi scopriamo di essere figli amati.
Ecco se dimentichiamo questa umiltà e presumiamo di essere giusti davanti a Dio, scivoliamo direttamente nel disprezzo degli altri, al punto che dopo aver letto la parabola potremmo arrivare a dire: Ti ringrazio Signore che non sono come il fariseo! Noi non siamo così!
In realtà, ci ricorda Gesù, basterebbe che ciascuno di noi pensasse al proprio peccato per diventare più tollerante con tutti.
Vedete la parabola non è una storiella per dare una ricetta moralistica, la parabola ha una sua forza «poetica», come diceva Ricoeur, dove per poetico si intende qualcosa di diverso dalla poesia come genere letterario. Poetico inteso come «creativo», che ha la capacità di far accadere qualcosa di nuovo nel nostro cuore.
In questo senso Gesù è un poeta, è il poeta di Dio, perché sa far nascere amore anche nel cuore distrutto di un peccatore, perché sa far nascere amore anche nel cuore arrogante di un fariseo.