V DI AVVENTO - Gv 1, 19-27a. 15c. 27b-28


Ci vuole una buona dose di fantasia anche solo immaginare che il lupo possa dimorare insieme con l’agnello, come scrive Isaia, e ancora che il leopardo si sdraierà accanto al capretto.

È un po’ come se dicessimo che un giorno Giulio Regeni e Patrick Zaki si siederanno a tavola insieme a Al Sisi, o che le donne curde un giorno si accompagneranno tranquillamente con Erdogan…

Di cosa stiamo parlando? Sono utopia le parole illuse di Isaia, sono parole di un incantatore per tenere a bada lo scoraggiamento di un popolo prigioniero e di fatto fallito? A ben guardare sembra ci siano più lupi che agnelli in giro e la violenza e il sopruso dominano oggi, altro che storie!

Vedete, anche noi non riusciamo a vedere i germogli di Isaia, anzi specialmente in questa stagione se guardiamo nel sottobosco del mondo non vediamo che frasche, fogliame, tronchi secchi… vediamo una società incapace di rigenerarsi, vediamo trionfare la durezza, l’odio. Vediamo un mondo in cui la cattiveria è più contagiosa del bene.

Ma se l’uomo è fatto a immagine di Dio, è figlio suo, come si può essere cattivi?

Cattivi, dal latino captivos, ovvero prigionieri, da qui cattività come condizione di schiavitù, di prigionia. I cattivi sono i prigionieri della paura, di quella paura che paralizza la mente e il cuore generando chiusura e aggressività. Sì, siamo prigionieri della paura e per questo vediamo solo brutture, decadenza, violenze… È questo il nostro futuro? Ma è davvero questa la nostra condizione invincibile?

Isaia nella prima parte della lettura si rende conto di avere dinnanzi a sé una realtà davvero senza speranza: l’ennesimo re di Assiria, Sennacherib, ha invaso il Nord (701) e sembra puntare su Gerusalemme governata ormai da incapaci.

Dove sta la promessa di Dio di un popolo libero e numeroso? Dov’è la pace, lo shalom tanto desiderato da chi si sente amato da Dio?

Non c’è più nulla: la dinastia davidica si presentava come un ciocco, buono solo per il fuoco ed essere bruciato nel camino.

Questo è quello che dicono tutti. Questo è ciò di cui si parla al mercato, per le strade, nei negozi: non c’è speranza di futuro! Non c’è nessuno in cui poter porre la fiducia.

Solo uno sa vedere oltre la superficie delle cose, solo uno conosce la profondità della storia, ed è appunto il profeta Isaia, non perché sappia prevedere il futuro come un mago, ma è uno che ha uno sguardo altro, che non si lascia irretire dall’incalzare dei notiziari, non si lascia deprimere dalla chiacchiera dei talk show, e vede lo spuntare di un germoglio, per quanto timido, fragile, esile e incerto.

Il profeta riconosce che anche nelle condizioni peggiori e aride, appunto come un tronco secco, può germogliare un virgulto (neer), vede come nel movimento dal basso, da dentro la storia emerga una speranza, sulla quale scende come in un movimento dall’alto lo spirito del Signore.

Che è come dire: Dio non sta mai nello sconforto, Dio non è uno che si arrende, ma è uno che benedice i germogli, li sostiene, li anima col suo soffio vitale.

Soffio descritto con tre coppie di doni che sono la sapienza e l’intelligenza, il consiglio e la fortezza, la conoscenza e il rispetto (timore).

Tutti ingredienti di un governo giusto, come specifica il profeta parlando di giustizia e di fedeltà… perché una delle amare constatazioni di Isaia, comune del resto agli altri profeti, è la mancanza di giustizia verso i poveri, verso i miserabili, su cui si abbattevano i soprusi dei ricchi. Ci vuole lo spirito di Dio perché il governo del mondo possa essere giusto.

E solo così la giustizia non è limitata al popolo, alla città, ma abbraccia anche il creato, le relazioni con il mondo animale, con la natura.

Isaia costruisce coppie di tre binomi tra un animale selvatico e uno domestico, tra un carnivoro e un erbivoro, che si concludono con l’associazione all’essere umano, anzi al più fragile dell’essere umano, un bambino capace di stare in loro compagnia, per dire la possibilità di un’armonia a noi impossibile.

Sono immagini potenti di una riconciliazione piena tra umanità e creazione, tra lupi e agnelli intesi in senso metaforico… siamo dinnanzi a uno scenario a dire poco improbabile stando alle nostre capacità, ma saremmo ciechi e guide di ciechi se contassimo solo su di noi, se non diventassimo capaci di riconoscere il dono di Dio.

Questo è anche il rimprovero che Giovanni Battista rivolge ai suoi contemporanei: In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete. Un rimprovero che vale anche per noi quando pensiamo che il Signore abbia abbandonato l’umanità al suo tragico destino e non riusciamo a vedere quel germoglio che è Gesù, che è il Vangelo, non vediamo tutti quei segni di rinascita che sono in mezzo a noi, facciamo fatica a riconoscere segni di speranza e di futuro.

Ora, Giovanni Battista entra in scena pressoché simultaneamente con Gesù. Sono due giovani trentenni, di cui uno battezza e predica, l’altro vive nel silenzio di Nazaret senza fare né dire cose eclatanti…

I sacerdoti e i leviti sono ossessionati da sapere chi sia lui e Giovanni li rimbalza: Non sono io… io sono soltanto voce prestata alla Parola! Si definisce appunto come voce che grida nel deserto, perché questa è la condizione di chi lo incalza: non sono capaci che di vedere quello che vogliono vedere. Non parlano se non di quello che già sanno e conoscono.

Giovanni Battista chiede di avere uno sguardo altro per saper vedere nella ferialità di Nazaret, nella vita quotidiana di un uomo giusto come Gesù, il dono di Dio, la promessa di vita.

Così come a noi occorrono occhi perspicaci per riconoscere i segni discreti della sua presenza tra noi grazie a tutte quelle persone giuste che nella fedeltà quotidiana e senza rumore mandano avanti il mondo.

Impariamo a vedere i germogli che ci sono intorno a noi e a indicarli come fa il profeta Isaia! Quanti giovani si spendono per la cura dell’ambiente, per la pace, per la giustizia! Mi diceva uno di loro dopo aver sentito che in Iran era stato ‘giustiziato’ un attivista dei diritti umani e che in America era stato ‘giustiziato’ un condannato: “Non è ‘giustizia’ questa, la giustizia è un’altra cosa, questo è assassinio, è omicidio”.

Non è forse un germoglio il fatto che il consiglio comunale di Milano, nella giornata dei diritti umani (10 dicembre), abbia dato la cittadinanza onoraria a Patrick Zaki, il giovane detenuto ‘ingiustamente’, senza giustizia, in una qualche prigione del Cairo?

È un germoglio una città che non si rassegna, perché come diceva La Pira, indicando il sentiero di Isaia quale la via della pace, bisogna unire le città per unire i popoli.

Invochiamo il dono dello spirito di Dio che ci liberi dalla cattività, dalla cattiveria, dalla prigione della paura e dell’odio, chiediamo il dono dello Spirito, che è sinonimo di libertà.

Ciascuno di noi chieda al Signore quel dono del suo Spirito di cui è consapevole di avere più bisogno: per alcuni sarà il dono dello Spirito di sapienza e di intelligenza per continuare a capire dove c’è il bene e dove c’è il male.

Per altri sarà lo spirito di prudenza e di coraggio per governare le nostre responsabilità con giudizio sia sul lavoro, in famiglia, nella vita pubblica…

Per altri sarà ancora lo spirito di conoscenza e di rispetto per vivere una fede capace di rispettare Dio, di non ridurlo a oggetto né di studio né di devozione e tantomeno di manipolazione strumentale.

Il mondo ha bisogno di cristiani meno seduti e rassegnati, e più profetici, più capaci di essere germoglio e di riconoscere quei germogli che lo Spirito di Dio suscita nella storia, perché come continuamente ci ricorda papa Francesco, anche nell’enciclica Fratelli tutti, solo così è possibile accettare la sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità. Un’umanità più giusta e più fraterna.

(Is 11,1-10; Gv 1,19-28)