II DI PASQUA - In albis depositis - Gv 20, 19-31
Per due volte si dice nel vangelo che i discepoli stavano in casa con le porte chiuse. È una condizione che conosciamo ormai bene, anche se ciò che ci spinge a stare in casa non è proprio la stessa paura di cui parla il vangelo di Giovanni… i discepoli hanno paura di fare la stessa fine di Gesù, la nostra è la paura di essere contagiata dal virus.
Comunque sia, l’istinto di difesa innalza il nostro livello di attenzione e di precauzione e ci fa essere prudenti, cauti e ci porta ad accettare anche di limitare la nostra libertà, a fatica, ma comprendiamo quanto questo sia necessario.
Anche se non può durare troppo a lungo. Perché la paura rischia di rinchiuderci in noi stessi, ci impedisce di vivere, ci paralizza.
L’abbiamo sperimentato tante volte: sarà stata la paura del giudizio degli altri, in altre occasioni sarà stata la paura di non essere all’altezza delle situazioni, oppure di non fare bella figura… ognuno di noi potrebbe fermarsi un poco in questa settimana e mettere davanti al Signore le proprie paure, quelle paure che riguardano il nostro futuro, quello dei nostri figli e delle persone che amiamo…
Sta di fatto che le porte di casa chiuse, tante volte dicono la chiusura di altre porte, quelle delle menti e dei cuori, quelle del pensiero e delle prospettive: la paura è come una gabbia invisibile in cui ci troviamo rinchiusi senza orizzonti. Lo sappiamo bene perché ognuno di noi ha una storia, abbiamo alle spalle esperienze che ci hanno fatto sperimentare errori, sbagli, fallimenti e anche solo il ripensarci accresce appunto la paura. Infatti molte delle cose che facciamo sono dettate dalla paura.
Oggi in particolare siamo presi dalla paura di non raggiungere i nostri obiettivi, di mancare i traguardi che ci siamo ripromessi nella nostra vita personale, familiare, professionale.
Quando manchiamo di raggiungere i nostri obiettivi ci prende la paura. Ormai non solo lavoriamo per obiettivi, ma viviamo per obiettivi e pieghiamo la schiena e la testa su ciò che ci viene consegnato come traguardo da raggiungere…
Il funzionare è diventato un mito, cultura dominante: siamo abituati a lavorare per obiettivi, il pensiero è il pensiero per fare, siamo diventati bravi a funzionare così, però abbiamo perso di vista lo scopo, abbiamo fatto coincidere l’obiettivo con lo scopo, ma se l’obiettivo è raggiungere quel funzionamento, lo scopo è capire perché faccio quelle cose, perché perseguiamo quell’obiettivo.
Anche i discepoli si erano dati degli obiettivi nello stare con Gesù: magari alcuni erano chiari, espliciti… altri invece erano rimasti nel non detto, erano delle aspettative che dovevano essere raggiunte.
Il vangelo di Luca narra che proprio durante l’ultima cena i discepoli discutevano tra di loro chi fosse il più grande! Questo per dire che avevano degli obiettivi, degli interessi… più o meno palesi.
Tant’è che Tommaso la sera della domenica di Pasqua non si presenta nemmeno… forse doveva lasciar sbollire la delusione di aver seguito uno che poi era finito crocifisso.
«Venne Gesù e stette in mezzo a loro», dicono i vangeli. Gesù prende l’iniziativa, è lui che raggiunge i suoi. Deve essere stato più semplice per Lui ribaltare la pietra e uscire dal sepolcro che non entrare nella casa in cui erano rinchiusi i suoi amici, entrare nel chiuso dei loro cuori, delle loro menti, delle loro angosce.
La prima cosa che chiede di fare ai suoi amici è distogliere lo sguardo da sé stessi, smettere di guardarsi addosso, di misurare le proprie forze, i muscoli per sollevare lo sguardo verso il Risorto, il Vivente.
Ed è lì che possono comprendere lo scopo di tutto, il senso di quella che è stata la storia di Gesù, il loro stare insieme a lui, il mettersi in gioco.
Devono alzare lo sguardo dai loro obiettivi per contemplare Gesù e non sé stessi, perché se guardiamo noi stessi non siamo capaci di vincere la paura e tantomeno di darci uno scopo per vivere.
Questo è il cambiamento che il Risorto provoca nei discepoli: sono deluse le vostre aspettative, sono mandati in frantumi i vostri obiettivi… ora è il momento di domandarsi qual è lo scopo della vostra vita. Che senso ha vivere, e vivere così, come il Vangelo insegna?
Cominciamo a rispondere non a partire dalle idee, dai sogni, dai desideri, ma dalle ferite che la nostra storia porta con sé, quelle ferite che noi nascondiamo e camuffiamo in una sorta di chirurgia estetica dell’anima, che invece Gesù non ha vergogna né paura di mostrare.
È un fatto curioso che il Risorto non restituisca di sé l’immagine di un corpo perfetto, senza cicatrici. Gesù si presenta con le ferite che rimangono sorprendentemente nel suo corpo risorto e che sono la cattedra autorevole per dirci qualcosa di decisivo per la nostra vita.
Guardiamo Gesù, contempliamo quelle ferite, raccogliamo l’invito rivolto a Tommaso: Guarda qui, guardiamo quel cuore lacerato per amore!
Davanti al fianco squarciato del Cristo riconosciamo le ferite mortali dell’odio e della violenza, le ferite delle umiliazioni e dell’ingiustizia… ma vediamo dentro quelle ferite anche tutto l’amore di cui è stato capace Gesù.
Giovanni ne è stato testimone oculare: ha visto uscire dal quel fianco squarciato sangue ed acqua. La spiritualità cristiana ha voluto leggervi da subito i simboli dei sacramenti, del Battesimo e dell’Eucaristia… ma in realtà la sequenza è invertita, come se Giovanni volesse dirci anche altro, quello che i profeti avevano annunciato, ovvero che una sorgente mandata da Dio avrebbe rigenerato Sion (Is 12,3; Zc 14,8).
Gesù lo aveva detto al cap.7: Chi crede in me fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno. Disse questo dello Spirito, che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui; lo Spirito, infatti, non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora glorificato (7,37-39)
Dunque l’acqua che Giovanni ha visto uscire dal fianco di Cristo è il dono vivo dello Spirito di Dio, un dono che diventa realtà in Gesù crocifisso, ed è unita al sangue.
Giovanni è lontano dalla mentalità arcaica che vedeva nel sangue della vittima un mezzo di espiazione. Piuttosto, se il sangue è sede della vita secondo la Scrittura, allora Giovanni vuol significare il dono che Gesù fa della sua vita, rivelandoci di quale amore siamo amati.
Agli occhi dei carnefici Gesù morto è un cadavere destinato alla dissoluzione… per Giovanni questo corpo ormai prossimo alla risurrezione continua ad effondere vita e Spirito.
Tommaso quando alza lo sguardo dalla sua delusione e vede le ferite del corpo di Gesù – e lui mi perdonerà se riesco a intuire poco di quello che deve essergli accaduto -, comprende di quale amore è stato amato e dicendo: Mio signore e mio Dio, esprime la sua profonda fede. Una fede che nasce dall’amore, non dalla paura di Dio, non dal senso di colpa, ma dal venire a sapere di quanto amore è amato.
Ora le ferite nelle mani, nei piedi e nel fianco di Gesù non sono più fonte di dolore, sono trasfigurate, sono fonte di luce perché guariscono e aprono gli occhi a Tommaso acquisendo il fascino di una bellezza inedita, non della bellezza della perfezione armonica, ma della bellezza che trasforma i segni del peccato in feritoie di amore e di perdono. Il corpo risorto di Gesù è il corpo che narra la capacità di fare del male subìto, un dono.
Impariamo da Tommaso: solleviamo il nostro sguardo ripiegato e rinchiuso su noi stessi e impariamo a riconoscere le ferite e le sofferenze delle persone che abbiamo intorno. Qual è il dolore più grande della nostra città e dell’umanità oggi?
Sono le ferite delle mani? Le ferite proprie di chi non ha cibo, di chi non ha nulla tra le mani, di chi non ha mani da stringere, di chi non ha mani che lo sorreggano… sono le mani di chi usa violenza? Di chi viene umiliato?
Oppure sono le ferite dei piedi? Le ferite di chi non sa andare verso il domani, di chi non ha prospettive di lavoro, di chi è incerto sulle scelte da compiere e non sa dove indirizzare i suoi passi? Sono le ferite di chi non ha stabilità psicologica o morale?
Sono forse le ferite del cuore, di un cuore umiliato, non amato, violentato, oppresso dalla solitudine e dall’isolamento? Il cuore di chi è rimasto deluso e non ha più il coraggio di amare?
Comprendiamo come tutto il sistema in cui siamo e che vorrebbe ridurci a macchine che devono funzionare, che devono raggiungere obiettivi ed essere performanti, viene seriamente messo in discussione dal modo di fare di Gesù che ci rimette di fronte al mistero dell’amore che si dona perché è dentro lì che possiamo renderci conto davvero di quale sia lo scopo della nostra vita.
Guardando le ferite del Risorto possiamo comprendere di quale amore siamo amati e far sì che questo amore che rigenera, che perdona, continui a scorrere appunto come un fiume in piena nelle ferite della nostra umanità, proprio come fa l’acqua nei solchi secchi delle terre aride.
(Gv 20, 19-31)