XXXII DEL TEMPO ORDINARIO - Lc 20, 27-38


 (2 Mc 7, 1-2.9-14; Lc 20, 27-38)

Abbiamo da poco celebrato la memoria dei defunti e in questi giorni ci siamo recati sulle tombe dei nostri cari, abbiamo acceso un lumino, abbiamo portato dei fiori … gesti molto semplici, ma densi di affetto e di speranza di rincontrarci un giorno nella risurrezione. Abbiamo acceso un lumino, una candela, che è il segno del Risorto, di quella luce che splende nel mistero oscuro della morte, come a dire che pur nel dolore, teniamo viva la luce della Pasqua. E abbiamo portato anche dei fiori, come per celebrare la festa della vita sulla morte.  Il fiore in questa stagione è un segno di una improbabile primavera, ma per noi è l’anticipo della primavera eterna, della vita che vince la tristezza del sepolcro.

Con le parole del Vangelo Gesù ci invita a continuare la nostra riflessione sulla risurrezione e sulla vita eterna. Non solo, ma anche la prima lettura raccontando l’eroismo dei sette fratelli martiri durante la rivoluzione maccabaica sotto la persecuzione di Antioco Epifane  (175-164 a. C.) e della madre che vedendo morire sette figli in un solo giorno sopportava tutto serenamente per le speranze poste nel Signore (7, 20), annuncia la risurrezione dai morti – ed è la prima volta in maniera così esplicita nel Primo testamento – dice: Dio ci risusciterà a vita nuova ed eterna, lett. per una rivivificazione eterna della vita (v. 9).

Sappiamo che il popolo ebraico giunse gradualmente a maturare questa fede che all’epoca di Gesù e della prima comunità cristiana non era condivisa da tutti, come infatti scrive Luca, i sadducei dicono che non c’è risurrezione. Al punto che si rivolgono a Gesù con una domanda maliziosamente ironica, come tutte quelle che gli vengono poste a Gerusalemme: «Tu stai dalla parte dei farisei? Credi alla risurrezione?  Poniamo il caso di una donna che in vita è stata sposata con sette mariti, alla risurrezione di chi sarà moglie? ». Nell’intenzione la domanda vorrebbe appunto mettere in ridicolo l’idea di risurrezione, in realtà mette in evidenza una povertà di pensiero che ricade sugli interlocutori stessi.

Se sposarsi, prendere marito e moglie, è così importante per vivere l’amore e per dare una discendenza nel nostro mondo, poiché nel mondo della risurrezione non c’è più la morte, in esso non c’è nemmeno più alcun bisogno di prendere moglie e marito. Il matrimonio è una realtà del tempo. Viene da Dio, ma è un evento sacramentale, sarebbe come domandarci se in cielo i preti continuano a dire messa e il papa a benedire urbi et orbi!

Ciascuno di noi resterà segnato dall’amore che ha vissuto sulla terra nella vocazione in cui il Signore lo ha chiamato, saremo sempre uomini e donne, ma come dice Gesù: «Siamo figli della risurrezione, figli di Dio». Cosa significa?

Nel corso della nostra vita sperimentiamo diverse appartenenze: portiamo un cognome per dire che siamo figli di … apparteniamo a questa città … a questa nazione …, tutte appartenenze che prima o poi vengono meno. L’esperienza della morte dichiara davvero a chi apparteniamo: siamo dell’Eterno. Se la morte ci può strappare a una moglie, a un marito, o addirittura può strapparci un figlio … non può tuttavia strapparci dalle mani di Dio.

In questa appartenenza all’Eterno e al suo amore siamo in grado di dare significato e consistenza a ogni altro legame che intrecciamo nella nostra esistenza e che nella morte ci parrebbe di perdere, in realtà rimane nel vincolo dell’amore di Dio, come ci ha ricordato l’altra celebrazione che abbiamo compiuto il primo novembre, la comunione di tutti i Santi. Una comunione che la morte non può spezzare.

Su che cosa fonda Gesù la sua affermazione che siamo figli della risurrezione, figli di Dio? Il Signore riprende un testo centrale della Torah di Mosè, il passo dell’Esodo in cui si racconta l’incontro di Mosè con l’Eterno presso il roveto: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe (3,6). Dio è sempre Dio ‘di’ qualcuno, un Dio che lega il suo nome al nome degli uomini e alla loro storia. Per la Bibbia conoscere Dio non significa semplicemente domandarsi chi è Dio, ma più profondamente di chi è Dio.

Infatti la Scrittura parlando del “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, non circoscrive l’Eterno in una definizione astratta, teorica, ma lo lega al nome dell’uomo, affermando che il nome di Dio è, in un certo senso, il nome dell’uomo. L’uomo è così caro all’Eterno che Dio prende il suo nome. E come diciamo “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, possiamo anche dire “il Dio di Sarah, di Rebecca e di Rachele”. Il Dio dei nostri padri e delle nostre madri, perché Dio ha un nome in riferimento a coloro che egli ama.

È su questo che anche Gesù fonda la fede nella risurrezione. Il passo di Luca è forse l’unico testo del NT in cui la fede nella risurrezione viene fondata senza alcun esplicito riferimento alla risurrezione di Gesù. In tutti gli altri passi è il fatto che Gesù sia risorto dai morti a fondare la speranza che anche noi con lui risorgeremo. Nel brano di oggi non si allude in alcun modo alla Pasqua di Gesù, ma la speranza è tutta fondata sulla fedeltà di Dio e sul suo legame con noi.

Questa è stata dunque la fede di Gesù, la fede con cui egli ha potuto vivere senza smarrimenti il suo cammino verso la morte, confidando unicamente nell’amore fedele del Padre, appoggiandosi alla sua volontà irrevocabile di essere il Dio di Gesù, il Dio che lega il suo mistero al nostro nome, alla nostra vita.

Al processo di Norimberga contro i capi del regime nazista comparve un testimone che per un certo periodo di tempo era riuscito a vivere in un cimitero, nascosto in una tomba in una città polacca. La tomba era l’unico posto sicuro per lui per non finire in una camera a gas. In una tomba accanto alla sua una giovane donna diede alla luce un bambino. Il becchino del cimitero, ottantenne, anch’egli ebreo, avvolto in un telo di lino, aiutò la giovane a partorire. Quando il bambino neonato, emise il suo primo grido, il vecchio ottantenne pregò: «Dio ci hai finalmente mandato il Messia? Infatti chi altro se non il Messia può nascere in una tomba?».

Tre giorni dopo vide il bambino che succhiava le lacrime della madre, perché la madre non aveva latte per lui. Questo racconto straordinario è amarissimo e bellissimo insieme per diversi motivi che mi sembra raccolgano bene il messaggio della parola di Dio per noi oggi. Anzitutto: la tomba diventa una culla, il luogo dove la vita finisce diventa il luogo dove comincia! Figura potentissima della risurrezione dove dal sepolcro sorge la vita eterna. Poi: quando tutto parlava di morte e il cimitero era diventato paradossalmente l’unico posto sicuro,  l’anziano ha saputo vivere l’attesa non della morte, ma della nascita del Messia, non della fine, ma dell’inizio. In terzo luogo: Chi se non il Messia potrebbe nascere in una tomba? Cioè dove deve venire il Cristo se non nel luogo della nostra sconfitta per darci vittoria, nel momento della nostra fine per darci un nuovo inizio?

Infine, la conclusione è amara, come sono amare le lacrime umane, ma mentre continuiamo la nostra vita e le nostre tribolazioni, con Gesù possiamo fare la nostra professione di fede, dicendo: Tu sei il Dio di mio padre, di mia madre, tu sei il mio Dio.