I DOPO L’EPIFANIA - Battesimo del Signore - Lc 3, 15-16.21-22
(Is 55, 4-7; Ef 2, 13-22; Lc 3, 15-16.21-22)
Volendo disegnare la scena del battesimo del Signore nel fiume Giordano, tenendo conto del nostro contesto, probabilmente non ci potremmo accontentare di quello che hanno fatto innumerevoli artisti nel corso del tempo e ci troveremmo a dipingere un fiume che ribolle di schiuma e di scarichi d’ogni genere, sulle cui rive dovremmo farci largo tra sacchetti di plastica e montagne di immondizia. Il cielo sarebbe attraversato dal sibilo di missili o di satelliti; e comunque le onde elettromagnetiche renderebbero inascoltabile qualsiasi voce che non fosse quella trasmessa da un cellulare….
E poi, se allora c’era la fila per andare da Giovanni a farsi battezzare, probabilmente oggi Gesù non dovrebbe aspettare. Non sarebbero in tanti a voler scendere in quelle acque!
E se proprio dovessimo andarci, nell’improbabile ipotesi di trovarci davanti una lunga coda, faremmo di tutto per sbrigarcela prima, facendo appello alle nostre conoscenze nel dire a Giovanni: «Ma io conosco tua madre Elisabetta…», «io conosco tuo padre Zaccaria… fammi passare prima!».
È chiaro cosa intendo con questo paradosso. A noi che abbiamo appena archiviato le luminarie di Natale, casomai non avessimo compreso l’evento nel suo significato e ci fossimo semplicemente coccolati con l’atmosfera artificiosa che si è andata costruendo intorno a questo mistero, in termini antropologici la questione che il battesimo del Signore ci viene a riproporre è la seguente: ma che tipo di uomo è questo Gesù, che uomo è il Figlio di Dio?
E la domanda ci riguarda da vicino, perché se siamo stati battezzati nel suo nome, la questione rimbalza anche su di noi: ma quale uomo, quale donna sono chiamato ad essere?
Chissà quante volte abbiamo chiesto ai nostri figli: cosa vuoi fare da grande? Ieri ci rispondevano: voglio fare l’ingegnere, il dottore, l’avvocato … Oggi i più ci diranno: voglio fare il presidente, il calciatore, l’attrice … Difficilmente qualcuno ci dirà che vuole diventare semplicemente uomo.
Eppure nostra madre e nostro padre non ci ha messo al mondo per fare il prete, per fare l’ingegnere o per fare l’attrice … – con tutto il rispetto perché tutte le professioni sono importanti-, ci hanno messo al mondo perché noi diventassimo uomo, persona.
Ma quale uomo? Quale persona? Quando sulle rive del Giordano, ascoltiamo la voce dal cielo che dice: Tu sei mio figlio l’amato: mi piaci proprio! È Dio che afferma: ecco un vero uomo, mi piace proprio quello che fa.
Gli esegeti ci dicono che il battesimo nelle acque del Giordano segna per Gesù lo spartiacque tra gli anni di una vita normale a Nazaret e il ministero evangelico dei suoi ultimi anni (probabilmente dall’autunno del 27 alla pasqua del 30). E questo è vero perché dopo quell’avvenimento Gesù cambia il modo di vivere: da artigiano di uno sperduto villaggio di Galilea diventa un rabbi itinerante, la cui parola acquista sempre più autorevolezza grazie alla capacità di arrivare al cuore delle persone e per i segni che l’accompagnano.
Ma rischiamo anche qui una comprensione della persona appunto secondo la sua attività, per il lavoro che compie … Ad una lettura più profonda dobbiamo saper vedere la continuità tra quello che Gesù ha vissuto per trenta/trentacinque anni e quello che va ad iniziare. Se avessimo potuto rivolgere a Gesù ancora bambino la domanda: «Tu cosa vuoi fare da grande?» ci saremmo sentiti dire le stesse parole che a Gerusalemme all’età di dodici anni rispose a sua madre: «Devo stare nelle cose del Padre mio».
Gesù non identifica la sua vita in una professione, in un ruolo sociale, in una responsabilità che la realtà gli chiede in quel momento, la cosa che conta più di ogni altra è quella che sulle rive del Giordano risuona dall’alto con tutta la sua forza: «Tu sei il Figlio mio, l’amato». La questione «quale uomo siamo chiamati ad essere» dipende dalla qualità della nostra relazione con Dio, che è la verità delle nostre vite.
In Gesù uomo che è sceso nel Giordano e che così condivide la nostra fatica, Dio ci rivela l’uomo che egli ama: l’uomo solidale, l’uomo che porta il peccato dell’altro, l’uomo che vive nella giustizia, l’uomo capace di riconciliazione, l’uomo che non condanna. L’uomo che è disposto a pagare di persona, come dice Paolo, per riconciliare i lontani e che non insegue il successo o il consenso.
Potremmo dire che tutta la vita di Gesù sarà la conferma di questo atteggiamento, fino a quando Pilato, consegnando il Cristo fustigato e umiliato alla follia omicida del popolino, dirà Ecco l’uomo! E lo afferma da inconsapevole testimone di quella che è stata la vita di Gesù.
Ma dobbiamo fare un passo avanti, perché in Gesù che scende nel Giordano solidale con l’uomo, si manifesta anche quale Chiesa oggi siamo chiamati ad essere. Infatti tutti noi battezzati, siamo stati immersi nella sua vita di figlio amato e resi a nostra volta figli e fratelli tra di noi. Eppure sono sotto gli occhi di tutti le difficoltà e le divisioni che la nostra Chiesa sta attraversando, anche se sappiamo che la Chiesa non è da oggi che si trova in difficoltà, si è trovata in difficoltà fin dall’inizio.
Il problema è che alcune di queste, come ci racconta la storia, sono la conseguenza di quando la Chiesa si smarrisce nell’inseguimento del potere, quando vuole imporre con norme giuridiche quello che non riesce più a sostenere sul piano pastorale delle convinzioni, quando smette di essere una fraternità di figli amati.
È vero che molti, nella nostra società, vivono come se Dio non esistesse e pensano così di vivere benissimo. Ma ce ne sono molti che sono interiormente in ricerca, sono in un certo senso pellegrini e non si interessano alle questioni strutturali interne della Chiesa, ma chiedono se e che cosa la Chiesa abbia da dire sulla questione basilare della loro esistenza, cioè in ultima analisi sulla questione di Dio.
Perché la sfida più profonda è la questione «quale volto di Dio trasmettiamo»? Sono convinto che il futuro della Chiesa nelle nostre società dipende dal fatto se saremo o meno capaci di testimoniare il volto di Dio che in Gesù si rivolge all’uomo lì dove si trova, non nella condizione in cui lo vorremmo noi e le nostre classificazioni, ma lì dove l’uomo vive con tutte le sue contraddizioni e inquietudini, miserie e povertà.
Chiediamo con umiltà al Signore di essere una chiesa che continua a scendere nel Giordano per prima, un’ ecclesia semper purificanda et renovanda, una chiesa per la quale ancora il Padre possa continuare a pronunciare le stesse parole di quel giorno al Giordano: “Mi piaci proprio come fai, sono contento di te”.
Vedete, molte volte ci troviamo nelle condizioni di pensare che Dio si sia distratto o peggio ancora si sia dimenticato di noi. Ma siamo noi che non dobbiamo dimenticare di essere figli in Cristo, non secondo la nostra idea di figlio, non secondo le nostre aspettative, ma consapevoli di che cosa ha significato per Gesù essere figlio. Nel senso che egli non ha avuto alcun privilegio … Essere amati da Dio, figli amati, non significa essere messi sul piedistallo, ma venire immersi, scendere giù nel mezzo dei bisogni e delle disperazioni degli uomini e delle donne di oggi.
La liturgia cristiana ci riconduce oggi al principio della nostra vocazione, alla percezione originaria della volontà di Dio per le nostre vite, perché là risiede il segreto della direzione da tenere per tutto il resto del nostro cammino: figli amati e fratelli che cercano di amarsi.