VI DOPO PENTECOSTE - Lc 6, 20-31


audio 9 lug 2023

La ricerca, il desiderio, il bisogno di essere felici accompagnano l’uomo fin dal suo nascere… e non è che uno riesca un giorno a dire: sono felice una volta per tutte.

Così che da più parti ci si dà da fare in maniera ossessiva e direi persecutoria per riempire questo bisogno, questo desiderio. C’è una sorta di prescrizione che in tanti si sentono di dover soddisfare, che sia la politica o la biochimica o l’estetica e la cosmetica… insomma non sto qui a fare l’elenco di coloro che si sentono in dovere di darci garanzie per ottenere la felicità con soddisfazione.

Eppure è esperienza di vita per molti di noi: la felicità sfugge all’ossessione della sua conquista.

Qualche volta abbiamo pensato che fosse sufficiente quella filosofia di vita spicciola e a buon mercato del tipo: Vivi l’attimo fuggente oppure, Va’ dove ti porta il cuore… Parole che stanno a confermare l’ansimante ricerca di arrivare al dunque, parole che in certe condizioni ci aiutano per davvero eppure proprio quando uno arriva a sperimentare di essere felice, subito la malinconia di perdere questa ambita condizione ha il sopravvento e siamo daccapo.

Sarebbe interessante poter condividere l’ultima volta che crediamo di aver toccato con mano la felicità e che cosa ne è venuto dopo.

Gesù che ci conosce bene, e che sa di questa nostra spasmodica domanda di felicità, ci provoca nel suo linguaggio paradossale, perché è davvero un paradosso accostare la parola beato, felice, alla condizione del povero! Il Gesù di Luca non mitiga il paradosso come succede in Matteo dicendo che però si tratta del povero in spirito, qui sono i poveri. In greco i ptokoi, i pitocchi, proprio concreti e precisi. E se non fosse chiaro, aggiunge anche la condizione di chi piange, di chi ha fame, di chi viene disprezzato.

Perché il paradosso? Forse ricordate di quel senza tetto, un poveraccio indifeso, picchiato a morte… ma perché? ci siamo chiesti in tanti. Perché tra i molti conflitti sociali che chiamiamo xenofobia, razzismo o repulsione verso migranti o rifugiati, emerge anche un’avversione nei confronti di chi semplicemente è povero.

Precisamente viene chiamata aporofobia, il neologismo è formato dal combinato greco á-poros, (senza risorse o povero) e fobos, (paura), e significa odio, paura, repulsione o ostilità di fronte al povero, a colui che si trova in situazione di indigenza.

Eppure prendere le distanze da un povero non garantisce allo stolto abbiente di essere felice nel suo mondo… anzi paradossalmente lo fa vivere in uno stato di povertà: quella morale e spirituale, per non parlare di quella relazionale e di fatto nella tristezza e nell’infelicità.

Con il paradosso delle Beatitudini Gesù ci dice che essere felici ha a che fare con qualcosa di essenziale che assomiglia alla grazia o al dono.

Mosè pensava che la sua felicità potesse consistere nel vedere Dio e quindi in qualche modo nel poterlo contenere, trattenere e possedere… Ma l’Eterno gli dice: tu non potrai vedere il mio volto. La felicità non consiste nemmeno nel trattenere il volto di Dio, perché Dio è grazia, è dono.

Le letture di oggi ci dicono che l’essere felici è una questione legata alla stessa questione di Dio. Dio è come la felicità: non lo puoi possedere, lo incontri nel dono. Dio non si può vedere, chi vede Dio muore, dice il libro dell’Esodo. Perché? non perché faccia il prezioso, ma perché è un dono, una grazia. Analogamente la felicità è un dono nel senso che, parafrasando il passo dell’Esodo, anche chi non vede l’uomo muore, muore la nostra umanità, muore la spiritualità, muore la fede. Guardiamo il volto del povero, impariamo a reggere lo sguardo dell’affamato, di chi piange, di chi subisce ingiustizia. È puerile difendersi dietro i confini e le frontiere, fa di noi delle persone infelici, ci rende un popolo di infelici.

Fino a quando non comprenderemo che la felicità è grazia e dono, avremo sempre più bisogno di evadere per gioire, di assumere sostanze, di stordirci di cose… Per ottenere il nostro benessere diventiamo capaci di mentire, truffare, tradire noi stessi e distruggerci a vicenda. Ma così non si può essere felici.

Le maggiori cause della nostra infelicità sono le bugie che raccontiamo a noi stessi.

La svolta del Vangelo di Gesù consiste nel rispondere al nostro desiderio e bisogno di felicità non attraverso la via istintiva e immediata proposta dalla mentalità dominante. Piuttosto, dice Gesù è meglio dare che ricevere, è meglio servire che dominare, condividere che accumulare, perdonare che vendicarsi.

Proviamo a fare qualcosa di gratuito: un gesto d’amore, una telefonata che abbiamo sempre rimandato… è facile dire di non aver niente da ridire con nessuno perché ci accontentiamo di non fare del male a nessuno, ma in definitiva siamo schiavi di noi stessi. Amiamo solo noi stessi.

La via della gioia e della felicità è quella del dono. Lo stiamo dimenticando. Le domande che sempre ci affastellano la mente sono: a cosa serve? È utile? Che ci guadagno? Insomma siamo abituati a calcolare e a misurare tutto.

La felicità è grazia, è dono, è gratuità.

(Es 33,18-34,10; Lc 6,20-31)